• Collana Mezzilibri

    Mezzilibri! Libri free … per metà! La nostra vocazione è sempre l’editoria libera, ma è anche giusto che gli autori e gli editori possano guadagnare … quando il lettore lo ritiene opportuno. E così nasce la collana Mezzilibri: Mezzo libro gratuito, mezzo a pagamento. Se il libro ha convinto il lettore allora l’altra metà si […]

  • Collana I Fiori del Web

    Nei blog, nei siti personali e nei social network si trovano narrazioni e scritture innovative, fresche e divertenti. Talvolta sono le palestre di autori emergenti interessanti da scoprire e da riproporre in altre forme. La sfida è saper cogliere i fiori e distinguerli dalle erbacce. I motori di ricerca sono quantitativi. La collana I FIORI […]

  • Collana Ragazzi per Sempre

    I libri della meraviglia, i libri che si leggono nel lettone assieme ai genitori, i libri che per primi commuovono, i libri che da sempre hanno insegnato ad amare i libri, i libri che portano lontano. Ragazzi per Sempre è la collana di CastelloVolante che raccoglie i grandi “libri per ragazzi” della nostra letteratura: le […]

  • Collana Pensiero Fossile | Prima della Storia

    I pensieri fossili, sono le tracce originali di idee che hanno cambiato la storia. Dopo che tutto è successo, dopo che, per merito o per colpa di queste idee, il mondo è cambiato, dopo che la storia ha fatto il suo corso, niente può più riferirsi a loro in maniera innocente. Niente può essere più […]

  • Collana Reincontri

    Al mondo ci sono milioni di libri che il tempo e le circostanze fanno dimenticare, a volte a torto, spesso a ragione. Ma poi, ce ne sono altri – alcuni – che, quando li ritroviamo, non dimentichiamo più. Reincontri è la collana che abbiamo voluto dedicare ai grandi romanzi dimenticati. Secondo noi, of course … […]

  • Collana Semper | Grande Narrativa

    Ci sono libri che vengono letti in continuazione. Nei secoli. E che tutti gli editori in continuazione ripubblicano. Ecco la collana dei Semper, il contributo di CastelloVolante al tramandarsi ininterrotto degli evergreen, questa volta in formato epub. Edgard Allan Poe, RACCONTI STRAORDINARI Luigi Pirandello, NOVELLE PER UN ANNO, vol2 Luigi Pirandello, NOVELLE PER UN ANNO, […]

  • Collana RosaLimone | Le città

    Quando Il rosa non era rosa e il giallo non era giallo. RosaLimone rivisita la letteratura d’appendice, la nascita della narrativa leggera. Formidabili interpreti raccontano, in modo scanzonato e divertente, un’Italia dimenticata, città per città. Più efficaci ed evocativi di qualsiasi romanzo storico, i RosaLimone fanno rivivere ambienti e personaggi, angoli dimenticati e pensieri. In un […]

I Ritornanti. Storie di ritorni impossibili

I Fiori del web

Quello tra la vita e la morte è un percorso a senso unico. Oppure no? Cosa accadrebbe se il senso di marcia si invertisse, se i morti camminassero tra i vivi nelle mille forme che la letteratura fantastica ha dato loro finora? Zombie, vampiri, fantasmi, mummie… dieci revenant, o “ritornanti”, ognuno con la sua storia, i suoi conti in sospeso, il suo desiderio di beffare la morte, raggirarla, annullarne gli effetti. Dieci racconti di altrettanti autori, tra esordienti e veterani, che immaginano scenari differenti a partire da un solo tema: l’inversione del percorso, il ritorno dalla morte alla vita, con le sue grottesche e surreali conseguenze.

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Elzeveta lo guardava con gli occhi spalancati e una strana espressione che Matt non aveva mai visto in una donna che sta per essere salassata. Sembrava quasi felice.
Il pensiero di Elzeveta su un aereo, che si schiantava sulla nave dei cattivi con quella stessa espressione, lo fece quasi ridere. Si piegò su di lei e le squarciò la carotide con gli incisivi, assaporando il fiotto di sangue che gli riscaldò il palato. Bevve come un signore, altro che etere e drink di merda.
Si rialzò e, cosa incredibile, la contessa Dracula era ancora viva, e lo guardava con una faccia ancora più fanatica… arrivò quasi a disturbarlo, quello sguardo.
«Che diavolo vuoi?» le disse. «Perché non muori?»
Lei trovò la forza per alzare una mano verso di lui. Matt si chiese addirittura se non fosse il caso di un altro prelievo: lo irritava la sua resistenza caparbia al dolce abbraccio del loculo… cioè, della morte.
Aprì la bocca ferita e parlò, o meglio gorgogliò qualcosa.
«Che?» disse Matt.
«Rendimi… come te…» balbettò. «Mio… signore… rendimi…»
Matt alzò le spalle. Proprio matta fino alla fine. “Ma vaffanculo” concluse con sufficienza.
Era morta, finalmente. E sembrava anche più bianca di prima.

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Niente fiori per San Valentino

I Fiori del Web

Piccoli racconti erotici nati sul web.
Una signora rimorchiata contro ogni sua aspettativa in una Roma assolata. Un amante che continua a distrarsi. Un brigante pugliese dagli enormi attributi, e tante altre storie.
In comune la capacitá di raccontare in maniera affascinante situazioni border-line e sicuramente hot.

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“Cosa stai guardando?”.
Manuela è distesa sul letto. Le ho alzato la gonna e le ho abbassato le mutandine fino alle ginocchia.
Sto guardando la tua fica, penso. Ci sono giorni (quasi tutti a esser sincero) che starei ore a fissarla. Ho sempre pensato a un fiore. Non molto originale, penso. Ci sono solo due millenni di letteratura prima di me, penso, però…
Allargo le prime pieghe di carne. Manuela allarga un po’ le cosce.
E’ per farmela vedere meglio, penso, o no?
Tu vuoi che io ti tocchi, penso.
Non ora, adesso voglio solo ammirarla.
La sfioro appena con le mie labbra. Gesto da professionista. Si vede che da giovane leggevo i fotoromanzi di Supersex. Manuela geme.
Ha un bel modo di gemere, penso.
Le sfilo completamente le mutandine. Adesso le spalanco le cosce. L’atto in sé mi eccita, non devo essere tanto normale…

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100 domande sugli animali

Le 100 domande | 100 domande sugli animali
CastelloVolante lancia un nuovo esperimento: Le 100 domande!
Una collana dedicata ai ragazzi: 100 domande su di un tema specifico, 3 risposte possibili e una spiegazione corretta.
Per cominciare, ecco le 100 domande sugli animali.
Voi lo sapevate che i pesci di mare bevono e quelli d’acqua dolce no?

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14. Perché alcuni mammiferi hanno le corna?

A) Le corna assolvono a una funzione evolutiva ben precisa: sono uno strumento utilizzato per staccare dagli alberi i germogli e la vegetazione di cui cibarsi.
B) Alcuni mammiferi utilizzano le corna per difendersi dai predatori. Spesso, all?interno della stessa specie, i maschi le utilizzano nei combattimenti per il possesso di una femmina.
C) Le corna, ma soprattutto i palchi, sono utilizzati dai mammiferi per raccogliere il materiale con cui costruiscono la loro tana.

Risposta esatta: B

Le corna sono formazioni ossee ricoperte da una sostanza particolarmente dura che si chiama cheratina. Crescono a partire dal cranio e possono essere presenti sia nel maschio sia nella femmina. strutture permanenti che, con l’invecchiare dell’animale, cambiano forma e dimensione.
I montoni delle montagne rocciose, a sole 8 settimane di vita, hanno già degli accenni di corna che, con gli anni, crescono curvandosi a spirale completando anche più di un anello.
Le antilopi presentano una fantasiosa varietà di corna: da quelle a mezzaluna dell’antilope equina a quelle aguzze dell’antilope capriolo.
I palchi, invece, sono simili alle corna, ma sono costituiti soltanto di osso e hanno la caratteristica di cadere e di ricrescere con scadenze stagionali. Sono propri solo dei maschi a parte il caso delle renne e dei caribù dove anche le femmine li possiedono e svolgono anche una funzione nei combattimenti tra maschi rivali per il possesso della femmina. Spuntano dalle ossa craniche e in circa 5 mesi si sviluppano ramificandosi ripetutamente. Dopo la stagione dell’accoppiamento i palchi cadono per ricrescere, dopo alcuni mesi, più grandi e più ramificati. Tra i mammiferi dotati dei palchi più belli e complessi, ricordiamo il cervo e l’alce.

Le favole di Fedro

Ragazzi Per Sempre | Favole

Dopo tanti mesi un nuovo “Ragazzi per Sempre”: Eccoci con una versione un po’ aulica delle favole di Fedro.
Fedro è uno scrittore latino. A inventare il genere era stato Esopo, ma quello che rende il genere famoso da noi è, appunto, Fedro che le riprende diversi secoli dopo.
Bisogna pensare che Fedro non vive in un periodo facile: Scrive i suoi libri durante l’ultimo periodo dell’impero di Tiberio e negli anni di Caligola. Erano momenti in cui a fare il moralista si aveva vita breve. Così Fedro, che pure vuol dire la sua, adotta come mezzo la favola: Chi se la prenderebbe con un autore che scrive testi per bambini? La storia non riporta che l’abbiano passato per le armi, quindi, probabilmente, l’espediente funzionò. Così, grazie al suo sviluppato istinto di sopravvivenza, produsse la più famosa raccolta di fiabe della letteratura.

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Il Cane, e il Lupo

Libertà quanto è cara, in brieve espongo.
Un Lupo, cui consunto ha lunga fame,
Un ben pasciuto Cane a sorte incontra:
Fermi si salutaro. Primo il Lupo:
Onde tal liscio, onde sì lauto cibo,
Il ventre ti distese? Io più robusto
Di te, a perir son da ria fame astretto.
Semplicemente il Can: Fia ugual tua sorte,
Se ugual servizio il mio padron n’ottenga.
E qual? Custode il dì sia de la soglia
Da i ladri la magion guardi la notte.
Io son pronto; nè boschi, e pioggia, e nevi
Soffrir m’è forza, e dura vita io meno;
Quanto più agevol fora sotto il tetto
Viver agiato, e largamente pascermi?
Vien dunque meco. Nel cammin s’accorge,
Che roso il Can da la catena ha il collo.
Onde è ciò, amico? Nulla. Amo saperlo.
Poichè sembro feroce, il dì mi legano
Perchè allor dorma, e desto sia la notte:
Sciolto su l’imbrunir, vo dove voglio:
Benchè nol chiegga, mi si porta il pane;
Da la mensa il padron l’ossa mi porge;
La famiglia gli avanzi; e se a taluno
Vien qualche cibo a noja, a me si getta:
Così senza fatica empiomi il ventre.
Ma se d’altrove andar mi vien talento,
Possol’io far? O questo no! e tu goditi,
Cane, le tue venture: io non le curo.
Regnar non vo’, se libertade io perdo.

Historytelling|Milano

Pensiero Fossile | Historytelling

Come sarebbe se, passeggiando per la città, potessimo conoscere le storie collegate a ciò che vediamo? Se invece di una didascalia o di un cartello segnaletico, potessimo leggere un racconto ambientato nel luogo che stiamo visitando? Come sarebbe se potessimo approcciarci ad un luogo storico attraverso gli occhi di qualcuno che quella storia la viveva come presente?HistoryTeller vuole andare in questa direzione. E’ una piccola raccolta di racconti e cronache di Milano, unita ad una ricerca iconografica che cerca di mostrare i posti di cui si parla com’erano al tempo della narrazione. In più, si appoggia al progetto Historyguerrilla, e quindi rende possibile scaricare via cellulare o tablet -attraverso un QR code- la parte di racconto relativa al luogo che si sta visitando.In un mondo sempre più crossmedia, cosa succede se uniamo il cartello segnaletico alla narrativa?

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Devo alla vecchia piazza e al suo popolo acquartierato quel poco che so di lingua milanese.
Il mio amico Luigi Degli Occhi che abita non molto lontano, in San Sisto, e che nei tempi eroici del foga girava al largo preso da timore reverenziale, l’aveva battezzata l’Università Castrense perché alta scuola di perfetto eloquio e in omaggio alla guerra che la sua gente vi combatteva da anni contro l’Autorità costituita…

Ricostituiamoci. La Costituzione italiana e le sue tre anime

Saggistica | Mezzilibri

Ricostituiamoci è uno straordinario viaggio dentro la genesi della nostra costituzione.
Giannella sceglie tre grandi padri costituenti, ciascuno interprete di una parte politica di allora, e gli fa raccontare le storie e i pensieri che hanno portato alla redazione della costituzione come la conosciamo adesso.
Così Nilde Iotti, Tina Anselmi e Giovanni Ferrara ci immergono in un racconto pieno di personaggi, aneddoti e grandi idee … e la Costituzione che siamo abituati a conoscere scompare per lasciare il posto a una grande avventura dove 75 persone si trovano con l’incredibile progetto di cambiare il proprio mondo, stabilendo le regole imprescindibili che dovranno consentire alla nostra nazione di crescere, senza mai più cadere in derive assolutiste.
E così fu.

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L’anima di sinistra della Costituzione nelle parole di Nilde Iotti (1920-1999)
Il 21 gennaio del 1995 Giuseppe Dossetti (già partigiano, giurista e monaco animato da profonde convinzioni politiche e morali), partecipa a Milano al convegno Costituzione oggi: princìpi da custodire, istituti da riformare promosso dal movimento Città dell’uomo.

Di Costituzione quella sera si parlò anche in un piccolo centro del Polesine, a Castelmassa (Rovigo). Nel Centro sociale Leonilde Iotti detta Nilde, presidente della Camera dei deputati per tre volte consecutive, dal 1979 al 1992 (un primato), con la sua inseparabile camicetta, il filo di perle coltivate, rispose in un’intervista pubblica (una delle serate organizzate da don Giuliano Zattarin per il ciclo d’incontri sulla Costituzione) alle domande che le posi dopo averla presentata con queste parole:

Nilde Iotti, una dei cinque “fondatori” della Costituzione ininterrottamente presenti dal 1946 alla Camera,[2] rappresenta il simbolo di oltre cinquant’anni della nostra vita, mezzo secolo che questa donna ha trascorso all’interno della buona politica, di quella politica che rivendica il primato e che ha bisogno di riprendere il primato; l’ha trascorsa all’insegna del rigore e della semplicità, entrando a Montecitorio a soli ventisei anni Come sapete, è stata una delle figure di maggior spicco del Partito Comunista Italiano retto dal genovese

Racconti Straordinari

Semper | Grande Narrativa

Immortali, eterni, fantastici, meravigliosi. Chi non conosce i Racconti Straordinari di Poe? Lui li scrive e nasce un nuovo tipo di immaginario, una nuova forma di letteratura.
Lui, però, in quei mondi che creava ci viveva pure, come fosse personaggio della sua stessa fantasia. A leggere la sua biografia si ha l’impressione di una vita allucinata e angosciosa, sempre al limite della follia. I racconti li scrive durante tutta la sua vita produttiva cioé dai 26 ai 33 anni, morirà a 40. Si innamora in maniera intensissima di donne impossibili, amori sempre tragici. Prima la madre di un compagno di scuola, lei muore, lui ci mette un anno a riacquistare il senno. Poi una coetanea, la famiglia di lei lo bandisce, lui cade in depressione acuta. Infine la sua incredibile moglie, sua cugina. La sposa a 13 anni, a 19 lei si ammala di tubercolosi e lui praticamente smette di scrivere. A 23 lei muore e lui impazzisce. Due anni dopo muore pure lui.
Di tutta questa avventura umana rimane un romanzo (Le avventure di Gordon Pym) e i Racconti Straordinari.
Però hanno cambiato il mondo!

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Il ritratto ovale

Il castello, nel quale il mio domestico s’era deciso di penetrare a viva forza, anziché permettermi, deplorevolmente ferito come io era, di passare una notte all’aria aperta, era una di quelle costruzioni, indecifrabile miscuglio di grandezza e di melanconia, che hanno per sì lungo tempo innalzate le loro rocche eccelse in mezzo agli Apennini, tanto nella realtà quanto nell’immaginazione di mistress Radcliffe. – Secondo ogni apparenza, esso era stato abbandonato temporariamente e tutt’affatto di recente.
Noi ci adattammo in una camera fra le più piccole e le meno riccamente ammobiliate, posta in una torre appartata dal fabbricato. La sua decorazione era ricca, ma rustica e cadente.
Lungo i muri erano tese delle tappezzerie adorne di numerosi trofei araldici d’ogni forma, nonchè di una quantità veramente prodigiosa di pitture moderne, in sontuose cornici dorate, d’un gusto arabesco.

Io provai tosto un vivo interesse (e la causa ne era forse il delirio che incominciava) per questi dipinti che erano affissi, non solamente sulle pareti principali delle diverse camere, ma altresì in una sequela di anditi e corridoi che, per la bizzarra architettura del castello, dovevamo passare inevitabilmente; e crebbe tanto l’interesse, che ordinai a Pietro di chiudere le massicce imposte della camera – poichè omai già annottava – di accendere un gran candelabro a più bracci, collocato vicino al mio capezzale, e di alzare invece, quanto era possibile, le tende di velluto nero, guarnite di frangie che circondavano il letto.

La pianta proibita. Canapa: coltura e cultura

Saggistica | Mezzilibri

La canapa è stata per secoli una delle risorse economiche, industriali e tessili più importanti del nostro Paese, secondo produttore mondiale per quantità ma primo per qualità. Nel Novecento, nonostante gli sforzi del fascismo di proteggere questo mercato, la canapicoltura è andata perduta. Questo saggio ne ripercorre la storia e analizza le cause del suo declino attraverso documenti inediti come un manoscritto di “materia medica” di fine Ottocento o le tavole dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert. Accanto alla storia dell’uso industriale di questa pianta oggi proibita, viene ripercorsa anche la storia del suo uso medico, riscoperto di recente, e di quello psicotropo, attraverso l’analisi di fonti come la leggenda di Marco Polo del Veglio della Montagna, a capo della setta degli Hashishiyya, da cui il termine assassino. E ancora, l’erba pantagruelione di Rabelais, il Poema dell’hashish di Baudelaire, le pagine del Conte di Montecristo di Dumas e quelle di Théophile Gautier. La storia del proibizionismo del Novecento viene ricostruita con un’analisi comparata con la proibizione di altre sostanze come il caffè, il tabacco e gli alcolici che hanno avuto come conseguenza la nascita dei monopòli di Stato e quella del gangsterismo. E un saggio sulla marijuana nella storia del cinema mette in luce come la considerazione della cannabis nell’opinione pubblica sia nel tempo cambiata: dalla droga devastante delle pellicole degli anni Trenta sino alle rappresentazioni leggere, scherzose e di denuncia del nuovo millennio.

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[…]

A partire dagli anni Novanta è impossibile raccogliere tutti i film che toccano il tema dalla marijuana, il panorama è troppo ampio. Si può però citare qualche esempio, magari divertente come quello di Nanni Moretti che, in una delle prime scene del film autobiografico Aprile (1998), racconta che per la disperazione, il giorno in cui Berlusconi ha vinto le elezioni sconfiggendo pesantemente la sinistra, ha fumato la sua prima canna, tra l’altro in presenza della madre. E la cosa che più stupisce, in questa rappresentazione, è che il regista non avesse mai fumato prima. Ormai con le “famigerate” canne si può solo scherzare. È questa la mentalità che si evince dai numerosi film che accennano a questi costumi e queste pratiche. Lo spinello? Lo fumano tutti, la cosa è normale e compare nei film esattamente come le altri normali scena di vita. Un altro esempio tra i più apprezzati, Il grande Lebowski (USA 1998) di Joel Coen, il simpatico protagonista fumatore d’erba e bevitore di vodka. Ma questa è una sua caratterizzazione secondaria e non fondamentale. Uno vezzo come tanti che serve alla presentazione del personaggio il cui ruolo è incentrato poi su ben altre vicende.

In questo periodo si possono individuare molti registi in cui il tema delle canne e della marijuana ricorre di sottofondo come costante delle proprie pellicole. Per esempio Pedro Almodovar, il grande regista spagnolo provocatorio e kitsch. Dai primi film grotteschi come Pepi Lucy Boom e le altre ragazze del mucchio (1990), in cui una giovane Carmen Maura è costretta a cedere ai ricatti sessuali di un poliziotto fascista e conservatore per non essere denunciata per la sua piccola coltivazione casalinga di marijuana, fino al drammatico Carne tremula (1997) in cui il poliziotto rimasto sulla sedia a rotelle si fuma una canna insieme all’amata (Francesca Neri).
Venendo invece alle produzioni nostrane bisogna citare per lo meno Gabriele Salvatores. Da Marrakech Express (1988) in cui tre amici vanno a recuperare un quarto finito nei guai per storie di droga in Marocco, a Mediterraneo (1990) vincitore dell’Oscar, in cui i soldati italiani sperduti su un’isola greca si fanno rubare le armi da un turco che li stordisce e addormenta offrendo loro da fumare fino allo stremo. E ancora, Puerto Escondido, dove Abatantuono, Bisio e la Golino si inoltrano per un losco traffico sulle montagne dove viene coltivata marijuana e, infine, Nirvana (1997) ambientato in un futuro dove il principio attivo della cannabis, il THC, è ormai sintetizzato chimicamente. Anche Mario Martone, in Teatro di guerra (1998), narra la storia di una compagnia teatrale napoletana all’epoca della guerra nella ex-Jugoslavia dove continuano a girare spinelli “perché le canne fanno parte della vita normale delle persone, e danno anche l’idea del bisogno di ottundimento, di evasione, senza cui non si reggerebbe la tensione” ha dichiarato il regista. E poi non si può non citare l’ultimo film di Stanley Kubrick, Eyes Wide Shut (1999) in una scena indimenticabile in cui i due amanti Bill (Tom Cruise) e Alice (Nicole Kidman), dopo aver fumato un po’ di marijuana per rilassarsi, si interrogano reciprocamente sulla propria vita sessuale in un gioco della verità che si prolunga e dilata al di là di ogni previsione.

Passando dalle scene “trasversali” ai film a tema, il più celebre è la deliziosa pellicola di successo, molto ironica e tutta incentrata sul tema della marijuana: L’erba di Grace (Canada 1998, titolo originale: Saving Grace) per la regia di Anthony Harrison. Grace è una mite signora di mezza età con l’hobby del giardinaggio…

Attenzione: questa è un’edizione gratuita non integrale dell’omonimo titolo in vendita a euro 4,70.

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FACEBOOK SCORIES [cronache di vita 2.0]

I Fiori del Web

18 brevi racconti irriverenti in cui il popolo della rete massacra il mito di Facebook! E il bello è che gli autori sono proprio coloro che lo utilizzano quotidianamente e quindi lo conoscono bene, anche nei suoi lati deteriori. I rapporti virtuali, dall’amicizia all’amore, sono messi alla berlina. I pericoli più inquietanti, dalla violazione della privacy ai rischi di dossieraggio o di essere vittime di attacchi di cybercriminali, sono evidenziati ed esasperati, spesso con ambientazioni fantascientifiche che dipingono un futuro allucinante, ma più che possibile. E poi il problema dei profili commemorativi post mortem, l’incubo di imbattersi in quei compagni di scuola poco graditi che se si erano persi di vista era perché c’erano molte ragioni, i problemi dell’Internet Addiction Disorder (IAD) e molto altro. Non solo narrativa, in sintesi. Non solo delle storie fresche, innovative e frutto dei nostri tempi. Ma anche uno spunto di riflessione intelligente sulla modernità e il tanto esaltato bisogno di condividere ogni cosa con tutti attraverso il più famigerato e pervasivo social network del cosiddetto web 2.0.

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«Eh già… tu non puoi sapere di Facebook!»
«E come potrei?»
«È cambiato tutto là fuori, in questi anni. Comunque, per fartela breve, ero in metropolitana, ora di punta. Tutti ammassati. Spingi spingi, mi avvicino a una ragazza che mi faceva un sangue… Così, giusto per appiccicarmi a lei, approfittando della calca, poggiarle una mano sulla coscia facendo finta di niente e annusarla. Le solite cose…»
«E com’era? Com’era?»
«Soda. Ero dietro di lei. Appoggiato al suo fianco. Stava armeggiando con l’i-Phone, quelli che vanno anche in Internet. Da dietro sono riuscito a sbirciare che era connessa a Facebook.»
«Età?»
«Venti. Comunque, non riuscivo a vedere che cosa stesse facendo esattamente. Non sapevo se la pagina che consultava era la sua o se stava scrivendo a qualcuno dei suoi contatti…»
«E com’era vestita?»
«Era estate, aveva un vestitino un po’ aperto. Da dietro riuscivo a guardarle nella scollatura. Indossava un reggiseno nero. Poi ho estratto anch’io il cellulare e, senza che se ne accorgesse, le ho scattato una foto.»
«Nella scollatura?»
«Ma no! In viso. Bisogna fotografare bene il volto. Poi ho usato il software di riconoscimento facciale.»
«Cosa?»
«Se sei su Facebook, anche se tu non hai mai postato tue foto, qualcuno dei tuoi amici, di sicuro, l’avrà fatto. Magari a una festa di compleanno, a una cena, in vacanza. Anche a tua insaputa. Basta che ti abbia taggato…»
«Cosaaa?»
«Basta che abbia scritto il tuo nome sotto la foto. Il software di riconoscimento ti trova. E a quel punto sai anche il nome. Da lì è un attimo. Basta andare su 123 People…»
«Sei troppo tecnico, per me!»
«Scusa. Ti basti sapere che in dieci minuti ho saputo qual era la sua pagina Facebook, ho trovato il suo sito di fotografie su Flickr… c’erano delle sue foto al mare che non ti dico!»
«In topless?»
«Anche. Poi ho trovato la sua mail e l’ho messa dentro Google. Ho scovato un suo vecchio annuncio pubblicato su un sito, regalava cuccioli di cagnolino. E lì aveva messo anche il suo numero di telefono! Era fatta. Risalire al suo indirizzo è stato un attimo.»
«E allora sei andato da lei?»
«No. Mi son fatto aggiungere ai suoi amici di Facebook. Prima volevo conoscerla. Volevo sapere che cosa le piacesse, sapere tutto di lei…»
«Come il gatto con il topo.»
«Ho una decina di account Facebook, tutti falsi. E non è stato difficile riuscire a farmi aggiungere tra gli amici. A quel punto era nelle mie mani. Potevo sapere dov’era, che faceva, chi frequentava, chi era il suo ragazzo… Credeva di parlare con un coetaneo. E io non facevo che sorprenderla e anticiparla. Ogni volta le dicevo di me qualcosa che sapevo che le piacesse. E ogni volta si stupiva e mi rispondeva: “anch’io!” Mi ha chiesto una foto. E le ho fatto vedere le foto di uno che sapevo sarebbe stato il suo tipo…»
«Sei un diavolo.»
«Alla fine è stata lei a darmi l’appuntamento! Basta saperci fare. E siccome sapevo che non lo avrebbe detto al suo ragazzo e che sarebbe stato un incontro clandestino… potevo andare tranquillo.»
«Tutte troie alla fine… quelle fidanzate sono le peggiori.»
«Aspetta. Sta arrivando il secondino… è l’ora d’aria, continuiamo dopo…»
«Ma senti… E se non c’era Facebook, come avresti fatto?»
«Come vuoi che avrei fatto? L’avrei seguita dalla metropolitana fino a casa. E lì l’avrei seviziata e fatta fuori senza tanta tecnologia. Come ho sempre fatto con tutte le altre! Ma vuoi mettere?»

Immobile scuola. Alcune osservazioni per una discussione

Saggistica | Fuori collana

L’uomo del nuovo millennio è profondamente diverso da quello di primo Novecento. A dividerli, tra le tante cose, c’è il cinema, la radio, il telefono, la televisione, prima ancora del digitale e di Internet. Eppure alle spalle hanno lo stesso modello di scuola! I “nuovi media”, in realtà, non sono poi così nuovi, hanno almeno un trentennio. Il mondo accademico e della scuola, però, ha rifiutato il ben più complesso approccio multimediale e si è arroccato nella difesa di un modello chiuso che stride con quello che sta avvenendo ed è avvenuto nella società. La cultura non può più coincidere solo con la parola scritta e la stampa. Perché la rivoluzione del digitale e di Internet non ha coinvolto la scuola se non marginalmente? È ancora possibile trattare i saperi contemporanei che sono multimediali, complessi e aperti con rigidi schemi manualistici? Che cosa possono fare i singoli insegnanti in questo scenario ingessato da ragioni politiche ed economiche che li sovrastano?
Queste sono le domande che l’autore si pone in un inedito pamphlet che ha come obiettivo non solo l’individuazione delle risposte, ma soprattutto quello di generare una discussione aperta alle soluzioni da parte di tutti.

Roberto Maragliano, guru italiano della didattica con le nuove tecnologie, dopo essere stato professore a La Sapienza, è nell’organico dell’Università Roma Tre dove insegna “Tecnologie per la formazione degli adulti” e “Comunicazione di rete per l’apprendimento”. Le sue pubblicazioni: La scuola dei tre no, Laterza 2003; Parlare le immagini. Punti di vista, Apogeo 2008; Educare e comunicare. Spazi e azioni dei media (cura con Alberto Abruzzese), Mondadori Education, 2008; Adottare l’e-learning a scuola, Garamond-Bookliners 2011.

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Stiamo vivendo tempi turbolenti, non c’è dubbio. Si direbbe che dagli anni Ottanta del secolo scorso il mondo s’è trovato all’interno di un vortice di cui tuttora, a distanza di tre decenni, non è dato di conoscere la reale dinamica, né i tempi, i modi e gli esiti di un suo eventuale esaurimento. Una cosa comunque è certa, ed è il fatto che alla base delle turbolenze, economiche o politiche che siano, c’è, tra gli altri aspetti, l’impetuoso affermarsi dei nuovi regimi della comunicazione sociale. Lo si voglia accettare o no, è indubbio che la nostra percezione e pure la nostra pratica di mondo stanno cambiando da che esistono il digitale e Internet e che tra i primi effetti di tutto ciò c’è l’ampliamento delle categorie di soggetti che includiamo in questo “noi” (per esempio quelli che continuiamo a chiamare “minori”, ma che tali sono solo in termini di età, e quelli che tuttora etichettiamo come “extracomunitari”, anche se fanno pienamente parte della “nostra” comunità di comunicazione).
Sarebbero anche soltanto pensabili gli scenari attuali della globalizzazione economico/finanziaria e pure di quella politica (senza escludere il tema del terrorismo internazionale) se a dare loro forma e praticabilità non ci fossero i livelli così elevati di accessibilità, efficacia, generosità, istantaneità del conoscere, del comunicare e del condividere che il digitale e Internet hanno reso possibili?
Si tratta, com’è evidente, di una domanda retorica.

Il ritorno di Vasco e altri racconti dal carcere

Narrativa | Mezzilibri

Non è facile raccontare la vita del carcere con leggerezza e senza mai cadere nel pietismo o nei luoghi comuni. Su questo registro l’autore si muove con sapienza, ironia e semplicità. Del resto al carcere di San Vittore ha anche insegnato e conosce bene questo mondo che ha esperito.
Un clochard viene scambiato per Vasco Rossi da un gruppo di discotecari che lo raccattano dalla strada e lo ospitano. La vita gli cambia improvvisamente e per settimane viene nutrito e idolatrato dai fan. L’inevitabile finale sarà quello di finire in carcere, come si evince dal titolo che è il filo conduttore di questa raccolta.
Il marocchino Saachid, come in un film di Totò, in carcere ci va per sua decisione. Dietro le sbarre si dà da fare con mille traffici e lavoretti per racimolare piccole fortune. Scontata la pena torna al suo paese e fa il mecenate. Poi c’è Gabriel playboy colombiano che traffica con droga e gioielli per mantenere nel lusso le donne che frequenta. C’è Nello che ingoia lamette da barba per evitare il trasferimento e riuscire a prendere la licenza media e Matteo che si laurea a pieni voti a Porto Azzurro, combatte con il cancro e scrive un romanzo. E c’è ancora di più. Questo “ritorno” del Ritorno di Vasco, pubblicato per la prima volta da Marcos y Marcos nel 1994, include tre racconti inediti: “Gli amori di Irene”, “La grande farfalla” e “The in crowd”.

Davide Pinardi insegna al Politecnico di Milano e all’Accademia di Brera. Ha pubblicato numerosi libri di narrativa (La storia segreta del señor Correal, Rizzoli; Tutti i luoghi del mondo, Tropea; A Sud della Giustizia, Interno Giallo) e di saggistica (Narrare, dall’Odissea al mondo Ikea, Paginauno; Il mondo narrativo,Lindau; La Giubba del Re – Intervista sulla corruzione, Laterza; La letteratura Italiana tra ‘800 e ‘900, RCS).

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La prigione era nei pressi del First Fort Gate: tra un negozio di vestiti e un bazaar si apriva uno stretto passaggio polveroso che conduceva in quello che, dalla strada, sembrava soltanto un antro buio. I poliziotti indiani fecero strada per un lungo cunicolo verso un primo locale con un tavolo coperto di fogli e due panche in un angolo. Si infilarono poi in un ufficio con due scrivanie. Faceva molto caldo lì dentro, e c’era un odore forte e indefinibile di un liquido che fermentava, un odore quasi stordente per la sua intensità.
Un altro ufficiale, superiore di grado a quello che li accompagnava, si alzò e venne loro incontro sorridente. Tese la mano con cordialità a Minervini e poi strinse anche quella di Tommasi.
“Welcome. Have you had a good travel?”
“It’s been very cold tonight…”
“Oh, yes, of course, it’ always cold here in the desert during the night. But nobody gets ill, here, never…”
Rise allegro. Era un uomo alto, solido, distinto. Prese la busta di documenti che Minervini gli porgeva, l’aprì, lesse accuratamente una ad una tutte le carte, ne scelse alcune da tenere e ridiede le altre al questore siglandone alcune.
” Okay, you can go to the prisoner and tell him the good news he’s leaving.”
Un poliziotto indiano accompagnò allora Minervini e Tommasi per un corridoio di quel silenzioso carcere indiano sotterraneo. Camminarono per qualche minuto in lunghe gallerie buie e umide fino a quando arrivarono in un androne con quattro portoncini alti non più di un metro, uno a ogni angolo. Dovevano essere nei sotterranei della fortezza che circondava la città.
Da una zona buia comparve un secondino che aprì una delle cellette e gettò il raggio della sua pila elettrica all’interno, nell’oscurità silenziosa. Minervini scorse, contro la parete di fondo, un ragazzo occidentale vestito da indiano dormiva su una stuoia lurida e strappata. L’aria era umida e soffocante e il questore ebbe a lungo la sensazione che gli mancasse il respiro. Il secondino diede una voce. Il ragazzo prigioniero si sollevò e aprì gli occhi riparandoseli dalla luce con un braccio. Chiese qualcosa in hindi e i poliziotti locali risposero con tono allegro.
Intervenne Minervini.
“Vengo dall’Italia. Siamo venuti a prenderla per riportarla a casa.”
” Where you wonna bring me?” Chiese quello in un inglese biascicato.
“A casa.”
“And where’s casa?” Chiese.
“In Italia.”
“Ah, in Italia, adesso ho capito…” disse finalmente in italiano. Poi scosse la testa, disse “It’s nothing but a dream ” E si ributtò giù a dormire.

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Bastarde senza gloria

Saggistica | Mezzilibri

STORIE DI DONNE A VENEZIA DAL MEDIOEVO A PATTY PRAVO
Veronica Franco, la più celebre e celebrata meretrice veneziana del Cinquecento; Elena Lucrezia Corner Piscopia, la prima laureata della storia; Elisabetta Caminer la prima giornalista d’Italia; Rosalba Carriera, la più celebre ritrattista del Settecento; Sara Copio Sullam, la poetessa del ghetto
Margherita Sarfatti, l’amante ebrea di Mussolini che ha creato il mito del “dux” e ha collegato la romanità al fascismo; Patty Pravo, l’unica italiana ad aver venduto oltre cento milioni di dischi.
Sono vissute in epoche diverse, alcune sono cresciute libere, altre oppresse da società misogine; tutte queste donne, però, hanno un tratto in comune: sono nate a Venezia. Sono le veneziane che hanno segnato il loro tempo e spesso anche il futuro. Un eBook per restituire loro la fama che non hanno avuto. Per ribadire che l’Italia di oggi non è stata fatta solo dagli uomini, ma anche dalle donne.
Un titolo inedito di Alessandro Marzo Magno, veneziano, giornalista storico e scrittore, ha pubblicato numerosi libri, tra cui: Piave. Cronache di un fiume sacro (il Saggiatore 2010) e Atene 1687. Venezia, i turchi e la distruzione del Partenone (il Saggiatore 2011).


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“Si chiamava Sara Enriquez Avigdór. Nella sua casa, in Ghetto Vecchio, aveva tenuto aperto per qualche decennio un importante salotto letterario assiduamente frequentato, oltre che dal dottissimo rabbino ferrarese-veneziano Leone da Modena, da molti letterati di primo piano dell’epoca, e non soltanto italiani. Aveva composto molti ‘ottimi’ sonetti che aspettavano ancora a persona capace di rivendicarne la bellezza; aveva corrisposto brillantemente per lettera, durante oltre quattro anni, col famoso Ansaldo Cebà, un gentiluomo genovese, autore di un poema epico sulla regina Ester, il quale si era messo in testa di convertirla al cattolicesimo, ma poi, alla fine, visto inutile ogni insistenza, aveva dovuto rinunciarvi. Una gran donna, in conclusione, onore e vanto dell’ebraismo italiano in piena Controriforma”.
Quella Sara lì, così magistralmente tratteggiata dalla penna di Giorgio Bassani nel “Giardino dei Finzi Contini” è esistita davvero. Soltanto che non si chiamava Enriquez Avigdór, bensì Copio Sullam; tutto il resto invece è assolutamente reale: componeva versi, il suo salotto letterario nel ghetto di Venezia era celeberrimo e attirava ebrei e gentili, ha tenuto una corrispondenza con il genovese Ansaldo Cebà e tutti, ma proprio tutti, tentavano di convertirla al cattolicesimo.
Già che una donna fosse letterata era poco accettabile per la società dell’epoca, che in aggiunta fosse ebrea, poi… “La mia fede è tanto vera/ e ‘l mi’ amor cotanto puro/ ch’io ti prego e ti scongiuro/ a lasciar l’hebraica schiera”, la invita Cebà. Ma lei non cede ora, e non cederà mai. Anzi, scriverà “che sta seriamente pregando perché sia lui a convertirsi alla religione ebraica”, gettando così nello sconforto il letterato genovese.

Attenzione: questa è un’edizione gratuita non integrale dell’omonimo titolo in vendita a euro 4,70.

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La divina suocera. Storia di Matidia che fece di Adriano un grande imperatore

Saggistica | Mezzilibri

L’incredibile storia di Matidia, la prima e unica suocera al mondo che sia stata addirittura divinizzata! Una delle più influenti matrone romane, nipote dell’imperatore Traiano, fu determinante nell’ascesa al trono di Roma da parte di Adriano che consigliava e seguiva persino nelle battaglie. La sua storia di madre, bisnonna e trisavola di imperatrici viene ricostruita in modo straordinario da una storica esperta nelle questioni femminili. Valeria Palumbo ha scritto questo libro in modo narrativo, con il risultato di rendere la sua rigorosa opera di divulgazione storica avvincente come un romanzo. L’autrice giornalista e caporedattore di L’Europeo ha pubblicato numerosi libri tra cui, Donne di Piacere (Sonzogno 2005), La perfidia delle donne (Sonzogno 2006), Svestite da uomo (Bur 2007) e Le figlie di Lilith (Odradek 2008) saggio sulla trasformazione del mito della femme fatale in diva. Il libro L’ora delle Ragazze Alpha (Fermento 2009) sulla terza onda del femminismo, ha vinto il premio selezione Anguillara Sabazia 2010. Il presente eBook è stato pubblicato per la prima volta nel 2004 dalla casa editrice Selene e ristampato nel 2010 con alcune revisioni.

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«[…] Non sa chi è Matidia? Ma anima mia, ma dove vive? Matidia», e gli si gonfiò il petto come se fosse sua sorella, «Matidia è stata la prima e unica suocera al mondo che è stata divinizzata. Dal genero, non so se mi spiego, Adriano, lo conosce? Quello di Villa Adriana, di Castel Sant’Angelo cioè della Mole Adriana, quello che si innamorò di un ragazzetto e per la gelosia lo fece
annegare nel Nilo e poi lo divinizzò, pure a lui. Quell’Adriano, per intendersi, che non è stato solo l’imperatore dei romani, ma del mondo, perché sotto di lui Roma raggiunse la massima grandezza, non so se mi spiego. Mi spiego?» aggiunse perplesso. «Più o meno, ma… siete parenti?», bofonchiai con aria stupida.

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Opere da tre clic [antologia della blogosfera]

I Fiori del Web

Una selezione dalla blogosfera che ripropone nove autori di scritture divertenti, imprevedibili e soprattutto brevi, di quelle che si leggono in soli tre clic. Perché la lettura a monitor costringe al dono della sintesi. Non si tratta necessariamente di blogger famosi e noti al “grande pubblico” della rete, ma di scrittori apprezzati da un piccola cerchia di estimatori. Questo, infatti, è il senso dell’operazione di scouting che vogliamo riproporre. Sono storie che in alcuni casi hanno la forma del racconto, in altri possiedono invece una loro continuità e lasciano intravedere una trama, oltre che uno stile omogeneo nella scrittura. Sono storie per tutti i gusti scelte per dimostrare che sul web si possono leggere anche pezzi molto interessanti e di buon livello. In alcuni casi meglio di quel che non è affatto gratis e si pubblica sulla carta abbattendo gli alberi.

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Il gatto, ogni tanto, si risvegliava dal suo torpore. Acciambellato sul pavimento, nel quadrato di sole che entrava dalla finestra, apriva gli occhi e rivelava la sua esistenza con un sonnacchioso miagolio. Un solo verso, tedioso, rivolto a una delle piastrelle di ceramica che ricoprivano la parete dietro i fornelli.
Il bambino Polanca, allora, distoglieva l’attenzione dai suoi giochi e riponeva sul tavolo il tassello del puzzle che stava cercando di incastrare. Guardava il gatto.
«Mamma, il gatto ha detto miao un’altra volta» diceva, rivolto alla madre.
La mamma, intenta a lavare i piatti, era talmente immersa nei suoi pensieri che lasciava cadere nel nulla l’osservazione del bimbo. Allora Polanca ripeteva la frase con un po’ di vivacità: «Ma’, il gatto ha detto miao!».
Solo al quarto tentativo riusciva a ottenere l’attenzione richiesta: «E perché ha detto miao, il matto?»
«Perché ha visto il pesce disegnato nella maiolica».
La donna non si voltava. Nella cucina si sentiva solo il rumore delle stoviglie riposte nello scolapiatti e quello dell’acqua che scendeva nel lavello. Il pesce marrone, con la testa grande e gli occhi gialli, sembrava un mostro preistorico. Polanca lo guardava. E, di nuovo, guardava il gatto. L’animale, dopo qualche minuto, ripeteva il suo verso.
Poiché non succedeva nient’altro, il bambino premeva il tasto del telecomando. Il telegiornale diceva cosa bisognava fare per arrivare in forma alla prova costume da bagno. Subito dopo, un tale con la cravatta, diceva la parola cattocomunista. Allora il micio allungava una zampa posteriore per sgranchirsi. Poi sbadigliava e lentamente se ne andava a cercare la sua ciotola. Polanca si ritirava nella sua cameretta e pensava ai sottomarini.

di Bobboti [www.bardofulas.splinder.com]

Ti faccio un thriller [mini-gialli da una pagina a un tweet]

I Fiori del Web

Contro la prolissità dilagante di certe pubblicazioni il cui numero di pagine genera volumi così pesanti da poter diventare l’arma del delitto, il popolo della rete si sfida nella produzione di gialli che hanno come obiettivo la brevità, alla ricerca del dono della sintesi decantata persino da Calvino nelle Lezioni americane. Dai gialli di una pagina, o poco più, sino a quelli che si possono inviare in un sms e addirittura in un tweet, che ricordano certi Delitti esemplari di Max Aub e a cui hanno partecipato, divertiti, anche scrittori e giallisti affermati.

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TROPPO TARDI

A stare sdraiati su un praticello sotto il sole, tra gli alberi, in primavera, certe volte dimentichi persino chi sei. Rimani lì a occhi chiusi. Abbandonato. come quando dormi. E ti sembra di essere niente.

Bello.

Ecco, son qui spiaccicato nell’erbetta e non sono niente. Sono la natura. Mi annullo nel paesaggio. Devo dimenticare tutto. Il lavoro. Le preoccupazioni. Non voglio pensare a niente.

Ma è difficile faretabula rasa. I pensieri appaiono da soli anche se li scacci. Come il volto di quell’uomo che ho incrociato poco fa. Ci siamo scambiati uno sguardo insolito. Di quelli che comunicano qualcosa, anche se al momento non saprei dire cosa.
Chissenefrega. Non m’importa.
Anche lui mi ha guardato in modo strano. Come se mi conoscesse. Come se nel volto, sotto la barba, nascondesse un nonsoché.

Ma che importa? Adesso son qui, sdraiato nell’erba. Pancia all’aria. Immobile in ogni muscolo. A sentirmi niente. Che pace.

Non devo pensare al lavoro. Un detective è sempre immerso nei propri crucci e non si lascia andare mai. Ti porti dietro in ogni momento le tue ossessioni. I tuoi sospetti. E non va bene. Tutti hanno bisogno di staccare, no? Quanto tempo è che non staccavi, detective? Quanto tempo è che non pensavi a niente? Non me lo ricordo più nemmeno io.

Che serenità.

Quell’uomo. Quell’uomo dallo sguardo torvo. L’ho già visto alla Bovisa, mi sa. L’anno scorso. Quando ho fatto arrestare la banda delle babyprostitute in schiavitù. Non aveva la barba allora, però.

Ma perché continuare a pensarci? Sto troppo bene su questo prato. È come se non avessi il corpo. La gioia dell’atarassia. Non sentire nulla. Nemmeno i dolori. Nemmeno i rumori.

L’ultimo rumore è stato quel boato. Quel suono che mi rimbomba ancora in testa come uno sparo. Subito prima di sdraiarmi qui nell’erba. Poi la sensazione di calore sulla testa. Un caldo umido e bagnato che cola lungo il collo. Inzuppa la camicia. Intorno a me vedo delle ombre. Si agitano. Si muovono come aliti di vento. Gridano. Non capisco cosa dicono. Ma non m’importa. Mi scuotono. Ma io tanto non mi muovo da questo prato. Non reagisco. Come si chiamava quell’uomo?
Georgi mi pare.
Certo. Georgi. Quello che sbraitava che me l’avrebbe fatta pagare.
Adesso capisco.
Mi sembra di sentire un suono di sirene.
L’ambulanza mi sta portando via.
Questo è l’ultimo caso di omicidio che risolvo.
Troppo tardi.

e-PERQUENAU? [rifacimenti di stile]

I Fiori del Web

È il rifacimento in versione web degli Esercizi di stile di Raymond Queneau. Una selezione delle migliori variazioni sul tema raccolte in un gioco che per quasi due anni si è svolto su un blog, premiato al concorso Scrittura Mutante e oggetto di una pubblicazione. Una galleria di interpretazioni non solo retoriche ma anche poetiche, ludiche, automatiche, grafiche. Componimenti che sfiorano il falso letterario, a volte molto colti, spesso divertenti, in molti casi raccontati da punti di vista assolutamente imprevedibili. L’intelligenza collettiva, per dirla con Pierre Levy, connessa in rete, si è cimentata con il più classico dei libri gioco con dei risultati sorprendenti.

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MONOVOCALICO [Lettera E]

Merc. 3 Feb.
«Che lentezze nel web!»
«E che è?»
«C’è gente… c’è gente perennemente!»
«Che bel web celeste!»
«Che belle, le celle. Che bel vedere!»
«È ‘l web del bebè.»
«Eh eh eh!»
«Che c’è?»
«Sette lettere sceme…»
«Perché?»
«Perché è verde! E se le vede ‘l bebè nelle bretelle del web celeste…»
«Embé? Se le vedesse?»
«Vedreste che scene! Che pene tremende!»
«Sente? Le prende… e nel sedere!»
«E né teme vendette, né sente che eccede.»
«Che serpe!»

[…]

«E per le tre, è sempre nelle tele del web! E sente che emette delle perle… è ‘l web delle menestrelle: geghe geghe geghe gè!».
«E che c’è, mentre le sente?»
«C’è ‘l celeste bebè che emette sentenze e freme perché nel web perse l’Esc…»

Vite da precari [tra creatività e follia]

I Fiori del Web

Il tema del precariato è ormai epocale e molto sentito. Nato da un gioco-concorso sviluppato sul primo «blog opificio di sperimentazione letteraria» italiano, l’eBook raccoglie una quarantina di brevissimi racconti ironici, pungenti, fantasiosi e assurdi. Senza mai cadere nel patetico e nel banale, queste storie precarie scritte da precari costituiscono un divertente spaccato di chi è costretto a [soprav]vivere costantemente in bilico tra la creatività necessaria all’invenzione di un lavoro e il rischio della follia.

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«Lei che numero ha?».
«Il 53».
«Aiha! Siamo appena al 13. Io invece ho il 15. E son qui da tre quarti d’ora».
«Andiamo bene. Mi toccherà prendere un permesso al lavoro, per rifare questi stupidi documenti».
«Furto o smarrimento?».
«Furto. Ma il danno non è nei cinquanta euro che c’erano nel portafogli. È in tutte queste trafile…».
«È uscito il 14, intanto. Ha visto come vanno lenti?».
«Non infierisca, la prego…».
«Senta, visto che ha fretta, vengo subito al sodo: quanto mi dà per fare cambio? Lei si prende il mio 15 e mi dà il 53 e la sua fila. Son disoccupato. Posso attendere, io».
«Cinque euro le vanno bene?».
«Guardi, non si offenda, ma una donna delle pulizie, oggi come oggi, a parte la questione dei contributi, prende tredici euro all’ora. Quanto tempo le faccio risparmiare? Si sa che il tempo è denaro…».
«Va bene, ecco dieci euro. Mi dia il numerino».
«Si è accesa la lucina del 15 ha visto? Ho pensato di non accettare per meno di venti. Mi scusi, mi faccia andare o perdo il mio turno».
«Aspetti, tenga, presto!».

Nonti di Cotiè acchiappò i soldi e il numerino dell’altro, poi lo guardò scapicollarsi verso lo sportello.
Era un lavoro dignitoso, il suo. Si ripeteva. Niente di illegale.
Si avvicinò fiero alla distributrice di numerini. Ne staccò un altro. Il 64.
Di lavoro non ce n’era in giro, per lui. A nessuna azienda interessava assumere un ricercatore lasciato a casa dopo quindici anni di precariato.
Nonti di Cotiè estrasse di tasca il mazzetto dei numeri e infilò il 64 al penultimo posto. Dietro al 53. In prima posizione c’era il 22. Il tabellone segnava ancora il 15. Mancavano solo sette numeri. Più che sufficienti per individuare il prossimo cliente, avvicinarlo e giocare sulla fretta. Senza dare il tempo di pensare né di trattare.
In una mattina riusciva a fare anche quindici scambi, se andava bene. Un ventone non capitava spesso, ma sotto il deca era difficile che scendesse.
Nonti di Cotiè benedì la burocrazia e si guardò intorno. Non se la passava male rispetto agli ex colleghi, in fondo. A fare l’omino delle file prendeva molto di più di quando aveva lo stipendio e lavorava poco. Mezza giornata al massimo. Poi a casa. A continuare le ricerche per la sua quarta pubblicazione.

Novelle per un Anno – volume 3

Semper | Grande Narrativa

Finalmente! Si pubblica oggi la terza parte delle Novelle per un anno…ora possiamo finalmente sapere esattamente quante sono… beh, in questo volume abbiamo raccolto tutte quelle che Pirandello aveva inserito nella sua Appendice perchè precedentemente accantonate…chissà poi per quale motivo…noi le abbiamo trovate una più bella dell’altra!
Godetevele!

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Un’alba come mai fu vista.

Una bimba venne fuori della nera capannetta, coi capelli arruffati su la fronte e con un fazzoletto rosso-sbiadito in testa. Mentre andava abbottonando la dimessa vesticciuola, sbadigliava, ancora abbindolata dal sonno, e guardava: guardava lontano, con gli occhi sbarrati come se nulla vedesse.

In fondo, in fondo, una lunga striscia di rosso infuocato s’intrecciava in modo bizzarro col verde smeraldo degli alberi, che a lunga distesa lontanamente si perdevano.

Tutto il cielo era seminato di nuvolette d’un giallo croceo, acceso.

La bimba andava sbadatamente, ed ecco… diradandosi a poco a poco una piccola collina che a destra s’innalzava, le si sciorina davanti allo sguardo l’immensità delle acque del mare.

La bimba parve colpita, commossa dinanzi a quella scena, e stette a guardare le barchette che volavano su l’onde, tinte d’un giallo pallido.

Era tutto silenzio. Aliava ancora la dolce brezzolina della notte, che faceva rabbrividire il mare, e s’innalzava lento, lento un blando profumo di terra.

Poco dopo la bimba si volse – vagò per quell’incerto chiarore, e giunta su l’alto del greppo, si sedette. Guardò distratta la valle verdeggiante, che le rideva di sotto, ed aveva cominciato a cantilenare una delicata canzonetta. Ma, ad un tratto, come colpita da un’idea, smise di cantare, e con quanta voce aveva in gola, gridò:

– Zi’ Jeli! Oh zi’ Jee…

E una voce grossolana rispose dalla valle:

– Eh…

– Salite su… ché il padrone vi vuole.

Novelle per un Anno – volume 2

Semper | Grande Narrativa

Ecco il volume 2 della monumentale raccolta di Pirandello! Altre ottanta novelle per la vostra libreria digitale e per i vostri weekend di primavera. Ma non finische qui: di volumi, alla fine, ce ne sarà un’altro ancora, con l'”Appendice”: tutte le novelle che gli erano “rimaste sparse”.
Buona lettura!

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Quand’ero matto, non mi sentivo in me stesso; che è come dire: non stavo di casa in me.
Ero infatti divenuto un albergo aperto a tutti. E se mi picchiavo un po’ sulla fronte, sentivo che vi stava sempre gente alloggiata: poveretti che avevan bisogno del mio ajuto; e tanti e tanti altri inquilini avevo parimenti nel cuore; né si può dir che gambe e mani avessi tanto al servizio mio, quanto a quello degli infelici che stavano in me e mi mandavano di qua e di là, in continua briga per
loro. Non potevo dir: io, nella mia coscienza, che subito un’eco non mi ripetesse: io, io, io… da parte di tanti altri, come se avessi dentro un passerajo. E questo significava che se, poniamo, avevo fame e lo dicevo dentro di me, tanti e tanti mi ripetevano dentro per conto loro: ho fame, ho fame,
ho fame, a cui bisognava provvedere, e sempre mi restava il rammarico di non potere per tutti. Mi concepivo insomma in società di mutuo soccorso con l’universo; ma siccome io allora non avevo bisogno di nessuno, quel «mutuo» aveva soltanto valore per gli altri.
Il bello intanto era questo, che credevo di ragionare la mia pazzia; anzi, se debbo dir tutta la verità senza vergognarmi, ero finanche arrivato a tracciare lo schema d’un trattato sui generis, che intendevo scrivere col titolo: Fondamento della morale.
Ho qui nel cassetto gli appunti per questo trattato, e ogni tanto, di sera (mentre Marta si fa di là il solito pisolino dopo cena), li cavo fuori e me li rileggo pian piano, di nascosto, con un certo godimento e anche una certa meraviglia, lo confesso, perché è innegabile che io ragionavo pur bene, quand’ero matto.
Dovrei veramente riderne; ma forse non ci riesco per il motivo affatto particolare che quei ragionamenti erano per la maggior parte diretti a convertire quella disgraziata, che fu la mia prima moglie, della quale parlerò appresso, per dare la piú lampante prova delle segnalate pazzie di quei tempi.
Da questi appunti argomento che il trattato del Fondamento della morale dovesse nel mio concetto consistere di dialoghi tra me e quella mia prima moglie, o forse d’apologhi. Un quadernetto, ad esempio, è intitolato: Il giovine timido, e certo in esso alludevo a quel buon ragazzo, figlio d’un mercante di campagna in relazione d’affari con me, il quale, mandato dal padre, veniva a trovarmi in città, e quella disgraziata lo invitava a desinare con noi per divertirsi un po’ alle spalle di lui. Trascrivo dal quadernetto:
«Dimmi, o Mirina. O che occhi sono i tuoi? Non vedi che codesto povero giovine s’è accorto che tu intendi prenderti giuoco di lui? Lo stimi sciocco; e invece è soltanto timido; cosí timido che non sa ritrarsi dalla berlina a cui lo metti, quantunque ne soffra dentro. Se la sofferenza di questo giovine, o Mirina, non rimanesse per te allo stato di segno apparente che ti fa ridere, se tu non
avessi soltanto coscienza del tuo tristo piacere, ma anche, nello stesso tempo, del dolore di lui, non ti par chiaro che cesseresti di farlo soffrire, perché il piacere ti sarebbe turbato e distrutto dalla coscienza dell’altrui dolore? Tu agisci dunque, Mirina, senza l’intero sentimento della tua azione, della quale provi l’effetto soltanto in te medesima.»

Novelle per un Anno – volume 1

Semper | Grande Narrativa

Tutti conosciamo qualcuna delle Novelle per un Anno, ma avete veramente idea di quante siano sul serio? Beh, per farvi un’idea, il primo dei due volumi ne contiene 120. Quindi potete stare sicuri che ne troverete tantissime che non avete mai letto e nemmeno sentito da lontano.

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Scosso dalla moglie, con una strappata rabbiosa al braccio, springò dal sonno anche quella notte, il povero signor Anselmo.
– Tu ridi! Stordito, e col naso ancora ingombro di sonno, e un po’ fischiante per l’ansito del soprassalto, inghiottí; si grattò il petto irsuto; poi disse aggrondato:
– Anche… perdio… anche questa notte?
– Ogni notte! ogni notte! – muggí la moglie, livida di dispetto.
Il signor Anselmo si sollevò su un gomito, e seguitando con l’altra mano a grattarsi il petto, domandò con stizza:
– Ma proprio sicura ne sei? Farò qualche versaccio con le labbra, per smania di stomaco; e ti pare che rida.
– No, ridi, ridi, ridi, – riaffermò quella tre volte. – Vuoi sentir come? cosí.
E imitò la risata larga, gorgogliante, che il marito faceva nel sonno ogni notte.
Stupito, mortificato e quasi incredulo, il signor Anselmo tornò a domandare:
– Cosí?
– Cosí! Cosí! E la moglie, dopo lo sforzo di quella risata, riabbandonò, esausta, il capo sui guanciali e le bracciasu le coperte, gemendo:
– Ah Dio, la mia testa… Nella camera finiva di spegnersi, singhiozzando, un lumino da notte davanti a un’immagine della Madonna di Loreto, sul cassettone. A ogni singhiozzo del lumino, pareva sobbalzassero tutti i mobili. Irritazione e mortificazione, ira e cruccio sobbalzavano allo stesso modo nell’animo stramazzato del signor Anselmo, per quelle sue incredibili risate d’ogni notte, nel sonno, le quali facevano sospettare alla moglie che egli, dormendo, guazzasse chi sa in quali beatitudini, mentr’ella, ecco, gli giaceva accanto, insonne, arrabbiata dal perpetuo mal di capo e con l’asma nervosa, la palpitazione
di cuore, e insomma tutti i malanni possibili e immaginabili in una donna sentimentale presso alla cinquantina.
– Vuoi che accenda la candela?
– Accendi, sí, accendi! E dammi subito le gocce: venti, in un dito d’acqua.
Il signor Anselmo accese la candela e scese quanto piú presto poté dal letto. Cosí in camicia e scalzo, passando davanti all’armadio per prendere dal cassettone la boccetta dell’acqua antisterica e il contagocce, si vide nello specchio, e istintivamente levò la mano a rassettarsi sul capo la lunga
ciocca di capelli, con cui s’illudeva di nascondere in qualche modo la calvizie. La moglie dal letto se n’accorse.
– S’aggiusta i capelli! – sghignò. – Ha il coraggio d’aggiustarsi i capelli, anche di notte tempo, in camicia, mentr’io sto morendo!
Il signor Anselmo si voltò, come se una vipera lo avesse morso a tradimento; appuntò l’indice d’una mano contro la moglie e le gridò:
– Tu stai morendo?
– Vorrei, – si lamentò quella allora, – che il Signore ti facesse provare, non dico molto, un poco di quello che sto soffrendo in questo momento!
– Eh, cara mia, no, – brontolò il signor Anselmo. – Se davvero ti sentissi male, non baderesti a rinfacciarmi un gesto involontario. Ho alzato appena la mano, ho alzato… Mannaggia! Quante ne avrò fatte cadere?
E buttò per terra con uno scatto d’ira l’acqua del bicchiere, in cui, invece di venti, chi sa quante gocce di quella mistura antisterica erano cadute. E gli toccò andare in cucina, cosí scalzo e in camicia, a prendere altra acqua.
– Io rido…! Signori miei, io rido… – diceva tra sé, attraversando in punta di piedi, con la candela in mano, il lungo corridojo. Un vocino d’ombra venne fuori da un uscio aperto su quel corridojo.
– Nonnino… Era la voce d’una delle cinque nipotine, la voce di Susanna, la maggiore e la piú cara al signor Anselmo, che la chiamava Susí.
Aveva accolto in casa da due anni quelle cinque nipotine, insieme con la nuora, alla morte dell’unico figliuolo. La nuora, trista donnaccia, che a diciotto anni gli aveva accalappiato quel suo povero figliuolo, per fortuna se n’era scappata di casa da alcuni mesi con un certo signore, amico intimo del defunto marito; e cosí le cinque orfanelle (di cui la maggiore, Susí, aveva appena otto
anni) erano rimaste sulle braccia del signor Anselmo, proprio sulle braccia di lui, poiché su quelle della nonna, afflitta da tutti quei malanni, è chiaro che non potevano restare. La nonna non aveva forza neanche di badare a se stessa.
Ma badava, sí, se il signor Anselmo involontariamente alzava una mano a raffilarsi sul cranio i venticinque capelli che gli erano rimasti. Perché, oltre tutti quei malanni, aveva il coraggio, la nonna, d’essere ancora ferocemente gelosa di lui, come se nella tenera età di cinquantasei anni, con la barba bianca, il cranio pelato, in mezzo a tutte le delizie che la sorte amica gli aveva prodigate; e quelle cinque nipotine sulle braccia, alle quali col magro stipendio non sapeva come provvedere; col cuore che gli sanguinava ancora per la morte di quel suo disgraziato figliuolo; egli potesse difatti attendere a fare all’amore con le belle donnine!
Non rideva forse per questo? Ma sí! Ma sí! Chi sa quante donne se lo sbaciucchiavano in sogno, ogni notte!
La furia con cui la moglie lo scrollava, la rabbia livida con cui gli gridava: «Tu ridi!» non avevano certo altra ragione, che la gelosia.
La quale… niente, via, che cos’era? una piccola, ridicola scheggina di pietra infernale, data da quella sua sorte amica in mano alla moglie, perché si spassasse a inciprignirgli le piaghe, tutte quelle piaghe, di cui graziosamente aveva voluto cospargergli l’esistenza.
Il signor Anselmo posò a terra presso l’uscio la candela, per non svegliare col lume le altre nipotine, ed entrò nella cameretta, al richiamo di Susí. Per maggior consolazione del nonno, che le voleva tanto bene, Susí cresceva male; una spalluccia piú alta dell’altra e di traverso, e di giorno in giorno il collo le diventava sempre piú come uno stelo troppo gracile per sorregger la testina troppo grossa. Ah, quella testina di Susí…
Il signor Anselmo si chinò sul letto, per farsi cingere il collo dal magro braccino della nipote; le disse:
– Sai, Susí? Ho riso! Susí lo guardò in faccia con penosa meraviglia.
– Anche stanotte?
– Sí, anche stanotte. Una risatoooòna… Basta, lasciami andare, cara, a prender l’acqua per la nonna… Dormi, dormi, e procura di ridere anche tu, sai? Buona notte. Baciò la nipotina sui capelli, le rincalzò ben bene le coperte, e andò in cucina a prender l’acqua.
Ajutato con tanto impegno dalla sorte, il signor Anselmo era riuscito (sempre per sua maggior consolazione) a sollevar lo spirito a considerazioni filosofiche, le quali, pur senza intaccargli affatto la fede nei sentimenti onesti profondamente radicati nel suo cuore, gli avevano tolto il conforto di sperare in quel Dio, che premia e compensa di là. E non potendo in Dio, non poteva per conseguenza neanche piú credere, come gli sarebbe piaciuto, in qualche diavolaccio buffone che gli si fosse appiattato in corpo e si divertisse a ridere ogni notte, per far nascere i piú tristi sospetti nell’animo della moglie gelosa.

Prospettive Fiabesche di Macchine Rare

Reincontri | Steampunk

Essere steampunk é una questione di spirito, bisogna essere modernisti, ma anche immaginifici e gotici. Potevamo quindi non comprendere nella nostra antologia trasversale anche testi futuristi? Ecco allora un Depero perso e affascinato tra auto fiabesche, come lui stesso le definisce. Un pezzetto di letteratura di genere decisamente imperdibile.
Anche in questo caso il merito di aver trovato e pubblicato il libro per la prima volta é di Stampa Alternativa. Ma noi l’abbiamo rieditato!

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Ed eccoci davanti ad una macchina sbalorditiva, che sembra ideata da un
ingegnere agricoltore, innamorato di zucche sesquipedali. Zucche che se si
aprissero per l’esame del loro favoloso interno, erutterebbero semi, succhi,
fiamme membrane, noccioli e tuberie intricate. Complicazioni vegetali da far
ammattire il più erudito e paziente naturalista. Ma questa macchina sembra
anche un assieme di proiettili pronti a tracciare parabole planetarie, a radere
al suolo città, a polverizzare fortezze e montagne, a far saltare magari qualche
pianeta. Ma essa assomiglia ancora ad un piccolo e duro dirigibile, in attesa
di salpare con velocità vertiginosa mari estesi e giogaie biancheggianti
di nevi eterne e abbacinanti ghiacciai. Dirigibile di duralluminio in attesa di sorvolare le nubi e di lanciarsi ad alte esplorazioni stratosferiche.Ecco perché la signorina al volante sorride all’idea felice di poter ammirare quanto prima le stupende visioni di un sogno stellare.

Il Fu Mattia Pascal

Semper | Grande Narrativa

Chi non ha pensato almeno una volta di sparire e e cominciare da capo? Il caso di Mattia Pascal è più intrigante: al culmine di una vicenda familiare pessima, pesante e pietosa sparisce, adesso diremmo va a comprare le sigarette.
Subito però gira la fortuna e, nel giro di pochi giorni diventa ricco e contemporaneamente scopre di essere stato identificato con un’altro trovato morto: Mattia Pascal viene così sbalzato dal proprio destino dentro un’altra identità che lui battezza Adriano Meis.
AM è benestante, viaggia, si innamora. Insomma, ha una vita tanto brillante quanto quella di Mattia Pascal era meschina. Eppure alla fine si ritrova vecchio, a vivere nello stesso piccolo paese di Pascal,  facendo lo stesso lavoro da bibliotecario e andandosi a trovare al cimitero.
Un’immagine quest’ultima che da sola vale il nobel che per’altro Piirandelllo s’è preso.

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Del primo inverno, se rigido, piovoso, nebbioso, quasi non m’ero accorto tra gli svaghi de’ viaggi e nell’ebbrezza della nuova libertà. Ora questo secondo mi sorprendeva già un po’ stanco, come ho detto, del vagabondaggio e deliberato a impormi un freno. E mi accorgevo che… sì, c’era un po’ di nebbia, c’era; e faceva freddo; m’accorgevo che per quanto il mio animo si opponesse a prender qualità dal colore del tempo, pur ne soffriva.
« Ma sta’ a vedere, » mi rampognavo, « che non debba più far nuvolo perché tu possa ora godere serenamente della tua libertà! »
M’ero spassato abbastanza, correndo di qua e di là: Adriano Meis aveva avuto in quell’anno la sua giovinezza spensierata; ora bisognava che diventasse uomo, si raccogliesse in sé, si formasse un abito di vita quieto e modesto. Oh, gli sarebbe stato facile, libero com’era e senz’obblighi di sorta!
Così mi pareva; e mi misi a pensare in quale città mi sarebbe convenuto di fissar dimora, giacché come un uccello senza nido non potevo più oltre rimanere, se proprio dovevo compormi una regolare esistenza. Ma dove? in una grande città o in una piccola? Non sapevo risolvermi.
Chiudevo gli occhi e col pensiero volavo a quelle città che avevo già visitate; dall’una all’altra, indugiandomi in ciascuna fino a rivedere con precisione quella tal via, quella tal piazza, quel tal luogo, insomma, di cui serbavo più viva memoria; e dicevo: « Ecco, io vi sono stato! Ora, quanta vita mi sfugge, che séguita ad agitarsi qua e là variamente. Eppure, in quanti luoghi ho detto: – Qua vorrei aver casa! Come ci vivrei volentieri! -. E ho invidiato gli abitanti che, quietamente, con le loro abitudini e le loro consuete occupazioni, potevano dimorarvi, senza conoscere quel senso penoso di precarietà che tien sospeso l’animo di chi viaggia. »
Questo senso penoso di precarietà mi teneva ancora e non mi faceva amare il letto su cui mi ponevo a dormire, i varii oggetti che mi stavano intorno.
Ogni oggetto in noi suol trasformarsi secondo le immagini ch’esso evoca e aggruppa, per cosi dire, attorno a sé. Certo un oggetto può piacere anche per se stesso, per la diversità delle sensazioni gradevoli che ci suscita in una percezione armoniosa; ma ben più spesso il piacere che un oggetto ci procura non si trova nell’oggetto per se medesimo. La fantasia lo abbellisce cingendolo e quasi irraggiandolo d’immagini care. Né noi lo percepiamo più qual esso è, ma così, quasi animato dalle immagini che suscita in noi o che le nostre abitudini vi associano. Nell’oggetto, insomma, noi amiamo quel che vi mettiamo di noi, l’accordo, l’armonia che stabiliamo tra esso e noi, l’anima che esso acquista per noi soltanto e che è formata dai nostri ricordi.
Or come poteva avvenire per me tutto questo in una camera d’albergo ?
Ma una casa, una casa mia, tutta mia, avrei potuto più averla? I miei denari erano pochini… Ma una casettina modesta, di poche stanze? Piano: bisognava vedere, considerar bene prima, tante cose. Certo, libero, liberissimo, io potevo essere soltanto così, con la valigia in mano: oggi qua, domani là. Fermo in un luogo, proprietario d’una casa, eh, allora : registri e tasse subito! E non mi avrebbero iscritto all’anagrafe? Ma sicuramente! E come?
con un nome falso? E allora, chi sa?, forse indagini segrete intorno a me da parte della polizia… Insomma, impicci, imbrogli!… No, via: prevedevo di non poter più avere una casa mia, oggetti miei. Ma mi sarei allogato a pensione in qualche famiglia, in una camera mobiliata. Dovevo affliggermi per così poco? L’inverno, L’inverno m’ispirava queste riflessioni malinconiche, La prossima festa di Natale che fa desiderare il tepore d’un cantuccio caro, il raccoglimento, l’intimità della casa.

Le Meraviglie del 2000

Reincontri | Steampunk

Visto che il genere steampunk ha riscosso notevole successo, ecco un’altra perla: L’unico romanzo di fantascienza di Salgari.
Due amici, un ricco giovane ed un medico geniale, usano un rimedio sconosciuto per risvegliarsi dopo cento anni: Riaprono gli occhi in un fantastico 2003 a base di elettricità, rivolte di anarchici e macchine volanti.

Enjoy it

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Erano trascorse altre due ore, quando il dottor Toby pel primo aperse finalmente gli occhi, dopo cent’anni che li aveva tenuti chiusi.
Dopo una immersione durata un quarto d’ora, in una vasca piena di acqua tiepida, aveva già cominciato a dare qualche segno di vita e a perdere la tinta giallastra, nondimeno era stata necessaria una nuova iniezione del filtro misterioso perché il cuore riprendesse finalmente le sue funzioni.
La rigidità dei muscoli era rapidamente scomparsa ed il colorito roseo era tornato sul suo volto in seguito alla ripresa della circolazione del sangue. Appena aperti gli occhi, il suo sguardo si fissò sul signor Holker che gli stava presso, occupato a soffregar il petto di Brandok.
«Buongiorno…» gli disse il pronipote, accostandoglisi rapidamente.
Toby era rimasto muto; nondimeno i suoi occhi parlavano per lui.
Vi era nel suo sguardo dello stupore, dell’ansietà, fors’anche della paura.
«Mi udite?» chiese Holker. Il dottore fece col capo un segno affermativo, poi mosse le labbra a più riprese, senza che potesse emettere alcun suono. Certo la lingua non aveva ancora riacquistata la sua elasticità dopo essere stata per tanti anni immobilizzata.
«Come vi sentite? Male forse?» Toby fece un gesto negativo, poi alzò le mani facendo dei segni assolutamente incomprensibili pel signor Holker. Ad un tratto le abbassò puntandole verso il signor Brandok, che stava coricato in un letto vicino.
«Mi chiedete se il vostro compagno è vivo o morto, è vero?» Il dottore accennò di sì.
«Non temete signor… zio, se non vi rincresce che vi chiami con questo titolo di parentela, poiché appartengo alla vostra famiglia come discendente di vostra sorella… Non temete, anche il vostro compagno sta per tornare alla vita e fra poco riaprirà gli occhi. Provate molta difficoltà a muovere la lingua? Vediamo, zio… sono dottore anch’io al pari di voi.»
Gli aprì la bocca e tirò parecchie volte quell’organo, che pareva si fosse atrofizzato, ripiegandolo poi in tutti i sensi, per fargli riacquistare la perduta agilità.
«Agisce ora?» Un suono dapprima confuso uscì dalle labbra del dottor Toby, poi un grido:
«La vita! La vita!».
«Mercé il vostro filtro, zio.»
«Cent’anni?»
«Sì, dopo cent’anni di sonno» rispose Holker «non credevate certo di poter tornare vivo.»
«Sì! Sì!» borbottò il dottore. In quell’istante una voce fioca chiese:
«Toby? Toby?». Il signor Brandok aveva aperto gli occhi e guardava il suo vecchio amico con uno stupore facile a comprendersi.
«Toby!» ripeté per la terza volta, tentando di rizzarsi sul guanciale.
«Non vi movete, signor Brandok» disse Holker. «Sono lieto di darvi il buongiorno e di udirvi anche parlare. Rimanete coricati; vi è necessario un buon sonno, del vero sonno.» S’avvicinò ad un tavolino su cui stavano parecchie fiale, ne prese una e versò il contenuto in due tazze d’argento.
«Bevete questo cordiale» disse, porgendo ad entrambi le tazze. «Vi darà forza… ah!… mi scordavo di dirvi che i vostri milioni sono al sicuro, qui in casa mia… Ricoricatevi, fate una buona dormita e questa sera pranzeremo insieme, ne sono certo.»
Il dottor Toby aveva mormorato:
«Grazie, mio lontano parente». Poi aveva quasi subito chiusi nuovamente gli occhi. Il signor Brandok dormiva di già, russando sonoramente. Il signor Holker rimase nella stanza parecchi minuti, curvandosi ora sull’uno ora sull’altro dei risuscitati, e ripetendo con visibile soddisfazione:
«Ecco il vero sonno che farà ricuperare loro le forze. Meraviglioso filtro!… Ecco un segreto che, se divulgato, renderà il mio antenato l’uomo più famoso del mondo. Lasciamoli riposare. Credo che
ormai siano salvi». Otto ore dopo il dottor Toby veniva svegliato da un sibilo leggero, che pareva venisse dal disotto
del guanciale. Assai sorpreso, s’era alzato a sedere, gettando intorno a sé uno sguardo meravigliato. Nella stanza non vi era nessuno e Brandok continuava a russare nell’altro letto.
«Chi mi ha fischiato agli orecchi?» si chiese. «Che io abbia sognato?»
Stava per chiamare Brandok, quando udì una voce che pareva umana, sussurrargli agli orecchi:
«Gravi avvenimenti sono avvenuti ieri nella città di Cadice. Gli anarchici della città sottomarina di Bressak, impadronitisi della nave Hollendorf, sono sbarcati nella notte, facendo saltare parecchie case, con bombe. La popolazione è fuggita e gli anarchici hanno saccheggiata la città. Si chiamano sotto le armi i volontari di Malaga e di Alicante che verranno trasportati sul luogo dell’invasione con flotte aeree. Si dice che Bressak sia stata distrutta e che molte famiglie anarchiche siano rimaste annegate».
Il dottore aveva ascoltato, con uno stupore facile ad indovinarsi, quella voce che annunziava uno spaventevole disastro, poi aveva sollevato rapidamente il guanciale, poiché la voce s’era fatta udire
più precisamente dietro la sponda del letto, e scorse una specie di tubo sul cui orlo era scritto:
“Abbonamento al World”.
«Una meraviglia del Duemila!» esclamò. «I giornali comunicano direttamente le notizie a casa degli abbonati. Che abbiano soppressa la carta e le macchine per stamparla? Ai nostri tempi queste comodità non si conoscevano ancora. Come è progredito il mondo!»
Stava per chiamare l’amico, che non si decideva ad aprire gli occhi, quando udì uscire dal tubo un altro fischio, poi la medesima voce che diceva:
«Guardate la scena».
Nel medesimo istante il dottore vide illuminarsi un gran quadro che occupava la parete di fronte al letto e svolgersi una scena orribile e d’una verità straordinaria.
Degli uomini erano comparsi in mezzo a delle case e correvano all’impazzata, lanciando delle bombe che scoppiavano con lampi vivissimi. I muri si sfasciavano, i tetti crollavano; uomini, donne e fanciulli precipitavano nelle vie, mentre larghe lingue di fuoco si alzavano sopra quegli ammassi di macerie, tingendo tutto il quadro di
rosso. Gli anarchici continuavano intanto la loro opera di distruzione, e le scene si succedevano alle scene con vertiginosa rapidità e senza la minima interruzione. Era una specie di cinematografo, d’una perfezione straordinaria, veramente stupefacente, che riproduceva con meravigliosa esattezza la terribile strage annunciata poco prima dal giornale. Per dieci minuti quel rovinio continuò, poi finì con una fuga disordinata di gente, che si rovesciava verso una spiaggia, mentre il cielo rifletteva la luce degli incendi.
«Straordinario» ripeteva il dottore, quando la parete tornò bianca. «Che progresso ha fatto il giornalismo in questi cento anni! E chissà quante meraviglie dovremo vedere ancora. Brandok, hai
finito il tuo sonno?» Udendo quella chiamata, il giovane aprì finalmente gli occhi, sbadigliando come un orso che si sveglia dopo il lungo sonno invernale.
«Come ti senti, amico mio?» chiese Toby.
«Benissimo.»
«Il tuo spleen?»
«Per ora non m’accorgo che mi tormenti. E… dimmi, Toby, abbiamo sognato, o è proprio vero che noi abbiamo dormito un secolo?»
«La prova l’abbiamo nelle nostre casseforti, che hanno portato qui mentre ci riposavamo.»
«Chi potrà credere che noi siamo risuscitati?»
«Il mio parente di certo, poiché è venuto lui a toglierci dal sepolcreto.»
«E dove ci troviamo noi? Ancora a Nantucket?»
«Non lo saprei davvero.»
«E tu come stai?»
«Provo un turbamento che non so spiegarmi e mi pare di essere molto debole.»
«Sfido io, dopo un così lungo digiuno?» disse Brandok, ridendo. «Non senti appetito? Io mangerei volentieri una bistecca, per esempio.»
«Adagio, mio caro. Non sappiamo ancora come funzioneranno i nostri organi interni.»
«Se il cuore, ed i polmoni non danno segno d’aver sofferto, dopo una così lunga fermata, suppongo che anche gli intestini riprenderanno il loro lavoro.»
«Eppure temevo che si atrofizzassero» disse Toby.
In quel momento la porta si aprì ed il signor Holker comparve, seguito dal gigantesco negro che portava dei vestiti simili a quelli che indossava il suo padrone e della biancheria candidissima.
«Come state, zio? Mi permettete di chiamarvi così, d’ora innanzi?»
«Certo, mio caro tardo nipote» rispose il dottore. «Mi trovo abbastanza bene.»
«Anche voi, signor Brandok?»
«Ho solamente un po’ di fame.»
«Buon segno; vestitevi e poi andremo a pranzare. Le vesti saranno un po’ diverse da quelle che si portavano cent’anni fa, però sono più comode e dal lato igienico nulla lasciano a desiderare, essendo
disinfettate perfettamente.»
«E anche la stoffa mi sembra diversa.»
«Stoffa vegetale. Già da sessant’anni abbiamo rinunciato a quella animale, troppo costosa e poco pulita in paragone a questa. Ah! Troverete il mondo ben cambiato; per ora non vi dico altro per non
scemare la vostra curiosità. Vi aspetto nella sala da pranzo.»
Il dottor Toby e Brandok si cambiarono, fecero un po’ di toeletta, poi lasciarono la stanza, inoltrandosi in un corridoio le cui pareti lucidissime avevano degli strani splendori, come se sotto la vernice che le copriva vi fosse qualche strato di materia fosforescente, ed entrarono in un salotto abbastanza ampio, illuminato da due finestre larghe e alte fino al soffitto, che permettevano all’ariadi entrare liberamente.
Era ammobiliato con semplicità, non esente da una certa eleganza. Le sedie, la credenziera, gli scaffali situati negli angoli e perfino la tavola che occupava il centro, erano formati di un metallo bianco e lucentissimo che assomigliava all’alluminio.
Il signor Holker era già seduto a tavola, la quale era coperta da una tovaglia colorata che non sembrava di tela.
«Avanti, miei cari amici,» disse, andando loro incontro «il pranzo e pronto.»
«E dove lo mangeremo?» chiese Brandok, che non aveva scorto sulla tavola né piatti, né bicchieri, né posate, né salviette, né cibi di alcun genere.
«Ah! mi scordavo che un secolo fa gli albergatori erano pure indietro di cento anni!» disse Holker, ridendo. «Hanno progredito anche loro. Guardate.» S’accostò ad una parete ed abbassò una lastra di metallo lunga un paio di metri e larga una trentina di centimetri, unendola alla tavola in modo da formare un piccolo ponte. L’altra estremità
s’appoggiava ad una piccola mensola sopra la quale sta scritto: “Abbonamento all’Hôtel Bardilly”.
«E ora?» chiese Brandok che guardava con crescente stupore.
«Premo questo bottone ed il pranzo lascia le cucine dell’albergo per venire sulla mia tavola.»
«Dove si trova questo Hôtel? In questa casa?»
«Anzi, è piuttosto lontano: sulla riva opposta dell’Hudson.»
«Siamo dunque a Nuova York?!» esclamarono ad una voce Toby e Brandok.
«Dove credevate di essere? Ancora a Nantucket?»
«Quando ci avete trasportati?» domandò Brandok al colmo della sorpresa.
«Ieri sera. Alle otto ho lasciato l’isola e a mezzanotte eravate qui.»
«In quattro sole ore, mentre cent’anni fa se ne impiegavano sedici e con una scialuppa a vapore!» esclamò il dottore.
«Abbiamo camminato colle invenzioni, mio caro zio» disse Holker. «Ah! ecco il pranzo.» Un sibilo acuto era sfuggito da una piccola fessura della mensola, poi una porticina si era aperta automaticamente all’estremità della lastra di metallo che si univa alla tavola e una piccola macchina, seguita da sei vagoncini di alluminio di forma cilindrica, s’avanzò, correndo su due incavi che servivano da rotaie.
«Il pranzo che manda l’albergo?» chiesero Toby e Brandok.
«Sì, signori, e con tutto il necessario. Come vedete è una cosa molto comoda che mi dispensa dall’avere una cuoca ed una cucina» rispose Holker. Aprì il primo vagoncino che aveva una circonferenza di quaranta centimetri e una lunghezza uguale e levò dei bicchieri, delle posate, delle salviette e quattro bottiglie che dovevano contenere
del vino o della birra. Dagli altri quattro estrasse successivamente dei piccoli recipienti contenenti del brodo ancora caldissimo, poi dei piatti con pasticci e vivande svariate, delle uova, dei liquori e così via. Tutto il necessario insomma per un pranzo abbondante.
Quand’ebbe terminato, premette un bottone, la porticina si aprì ed il minuscolo treno scomparve, retrocedendo colla velocità d’un lampo.
«Che cosa ne dite, signor Brandok?» chiese Holker.
«Che ai nostri tempi queste comodità mancavano assolutamente. E tornerà il treno?»
«Certo, per riprendere le stoviglie.»
«E come arriva qui?»
«Per mezzo d’un tubo, e cammina mosso da una piccola pila elettrica, d’una potenza tale però che le imprime una velocità di quasi cento chilometri all’ora. Queste vivande non sono state rinchiuse
nei loro recipienti che da qualche minuto; infatti vedete che fumano, anzi scottano.»
«E l’albergatore come viene avvertito dal cliente di ciò che desidera?»
«Per mezzo del telefono. Al mattino il mio servo trasmette all’Hôtel il menù per il pranzo e per la cena e le ore in cui desidero mangiare, ed il treno giunge con precisione matematica.»
«Non tutti potranno permettersi un lusso simile» osservò il dottore Toby.
«Certo,» rispose Holker «ma quelli che non possono abbonarsi all’Hôtel se la sbrigano anche più presto.»
«A mangiare forse, non certo a prepararsi il pranzo.»
«Il lavoratore non fa più cucina in casa, non avendo tempo da perdere. Otto o dieci pillole, ed ecco inghiottito un buon brodo, il succo d’una mezza libbra di bue, o di pollo o di una libbra di maiale o di un paio d’uova, d’una tazza di caffè e così via. Cent’anni fa si perdeva troppo tempo; camminavate ed agivate colla lentezza delle tartarughe. Oggi invece si gareggia coll’elettricità.
Mangiate, signori miei, o i cibi si raffredderanno. Una tazza di buon brodo, signor Brandok, prima di tutto, poi sceglierete quello che più vi piace. Vi avverto che è un pranzo a base di vegetali.

Anna Karenina

Semper | Grande Narrativa

Le famiglie felici si somigliano sempre l'una con l'altra: ogni famiglia infelice lo é in un modo particolare :)
Se sapeste quanta fatica abbiamo fatto per rendere disponibile Anna Karenina in epub-free e quanto ne siamo orgogliosi, capireste che é puro amore! AK é il primo libro da cui partiamo direttamente dal cartaceo, questo ci ha costretto a dimezzare la frequenza di uscita. Ve ne sarete accorti, da due libri a settimana siamo passati ad uno. Ecco quindi il nostro attuale programma editoriale: uscire circa una volta al mese, ma con un grande libro!
E adesso immergetevi pure :)
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– Non credevo che foste partito – disse, -lasciando ricadere la mano che stava per aggrapparsi alla colonnina. E una gioia incoercibile le brillò nel viso, fattosi di un subito animato. – Perché siete partito?

– Perché? – ripetè egli, fissandola negli occhi. – Lo sapete: per essere dove siete voi. Non posso fare altrimenti.

Intanto il vento spargeva via la neve dal tetto dei vagoni e faceva mulinello, trascinando una lastra di latta che aveva strappata. Si sentiva il fischio cupo della locomotiva. Ad Anna quell’orrore della tempesta sembrava magnifico. Vronskij aveva detto proprio quello che l’anima sua desiderava e che la sua ragione temeva. Non rispondeva nulla ma egli le leggeva in viso la lotta che stava sostenendo.

– Perdonatemi se vi è dispiaciuto quello che ho detto – aggiunse egli sommessamente. Parlava in tono rispettoso, ma così fermo e ostinato che essa non potè rispondere nulla. Dopo un po’ di tempo disse finalmente:

– È male quel che dite, e io vi prego, se siete un gentiluomo, di dimenticare le vostre parole come le dimenticherò io.

– Io non dimenticherò mai né una vostra parola né un vostro gesto, e non posso…

– Basta, basta! – gridò lei, sforzandosi di dare un’espressione severa al suo viso che Vronskij fissava avidamente. Afferrando con la mano la colonnina, essa salì frettolosamente la scaletta ed entrò nella vettura. Ma rimase ferma sulla piccola piattaforma ripercorrendo nella mente la scena che si era svolta. Non si ricordava le parole che aveva udite né quelle che aveva dette, ma sentiva che quel che era accaduto in quei pochi momenti li aveva avvicinati l’uno all’altro, e ne era spaventata e felice. Dopo alcuni minuti rientrò nel vagone e riprese il suo posto. Lo stato di tensione in cui si trovava prima era aumentato al punto che essa ad ogni istante temeva che il cuore le scoppiasse.

Non dormì per tutta la notte, ma verso la mattina si assopì, e quando si risvegliò era giorno chiaro e il treno si avvicinala a Pietroburgo. Immediatamente ritrovò i suoi pensieri abituali e le ritornarono alla mente la sua casa, il marito, il figlio, le piccole faccende che l’aspettavano quel giorno.

A Pietroburgo, appena il treno si fu fermato e lei ne discese, la prima persona che si vide davanti fu il marito. «Ah! Dio mio! Perché mai ha quelle orecchie?», pensò, guardando quella figura rigida e dignitosa e specialmente quelle orecchie che sostenevano la tesa del cappello tondo. Scorgendola egli le andò incontro increspando le labbra a un sorriso un po’ ironico che gli era abituale e guardandola coi suoi grossi occhi stanchi. Un senso spiacevole fece stringere il cuore di Anna quando incontrò quello sguardo spento, come se si fosse aspettata di trovarlo diverso. Specialmente la colpì quell’impressione di scontentezza di sé che provò nell’incontro col marito. I suoi rapporti con lui avevano sempre avuto una tinta come di falsità, ma ora ne ebbe una coscienza chiara e dolorosa.

I Sette Capelli d’Oro della Fata Gusmara

Ragazzi per Sempre | Fiabe

Quando Salgari scriveva del Corsaro Nero o di Sandokan in Italia c’era un’altra scrittrice altrettato fertile (in senso letterario, naturalmente), la pessima Carolina Invernizio che a noi piace tanto.
Qui, per una volta, si cimenta in una fiaba per ragazzi. Come sempre, Carolina tira dritto e si fa degli schemi suoi, infischiandosene abbastanza di quelle che sono le consuetudini letterarie dell’epoca. Ed ha un grande successo, E produce una quantità impressionante di libri. E vende tantissimo. Ed è pure donna!
Insomma, abbastanza per fare imbestialire i pomposi letterati suoi contemporanei. Di cui lei, per l’appunto, non si curava per nulla.

E volete che non ci sia simpatica?

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Falco era l’unico figlio di un povero taglialegna, che viveva in un misero casolare, posto nel centro della foresta. Egli aveva perduto sua madre all’età di tre anni e da quel giorno suo padre non gli rivolgeva più la parola, né sorrideva: il pover’uomo stava per ore ed ore intere seduto sopra un grosso ceppo, all’ombra di una querce secolare, con l’accetta fra le gambe, i gomiti puntati sulle ginocchia, chiuso nel suo mutismo, senza curarsi del bimbo, che ruzzava ai suoi piedi con dei
piccoli ciottoli e non sospendeva il suo giuoco, che quando il padre, scosso un istante dal suo torpore entrava in casa per uscirne quasi tosto con un pezzo di pan nero, che gli porgeva in silenzio ed il fanciullo divorava fino all’ultima briciola.
Falco crebbe quindi senza conoscere i baci, le cure di una madre, le carezze, le parole amorose di suo padre. Era un bel fanciullo, dai grand’occhi intelligenti e sognatori, dal sorriso melanconico, triste.
Figlio, si può dire, della foresta, avvezzo fino dalla più tenera età all’indipendenza del bosco nativo, egli amava quella solitudine, ne conosceva tutti i segreti, non aveva paura del buio, delle bestie, degli spiriti buoni e cattivi, che si diceva popolassero quel luogo, camminava delle miglia senza stancarsi, dormiva saporitamente tutta la notte, senza che i rumori strani e misteriosi della foresta turbassero il suo sonno tranquillo.
Durante la stagione delle piogge, nell’inverno, Falco seduto presso il focolare, mentre il padre fissava intento la fiamma, quasi volesse trarne qualche pronostico, cogli occhi smarriti, il pensiero lontano, intrecciava graziosi panieri, oppure con un piccolo coltello affilato, intagliava nella scorza di alberi dolci figurine, oggetti di fantasia, che mostravano il gusto artistico del fanciullo. Oppure sopra un sillabario, smarrito da qualcuno nella foresta, si sforzava ad imparare a leggere. E se il tempo era bello, andava a raccogliere nel bosco frutta, miele, erbe aromatiche e virtuose ed altri prodotti selvatici.
Ad otto anni, già si rendeva utile in casa. Era lui che si occupava delle piccole faccende domestiche, che cambiava le foglie dei letti, apprestava le magre pietanze, teneva in ordine, pulite le misere stoviglie. Alle volte si metteva a cantare, risvegliando gli uccelli del bosco, che prendevano lietamente parte a quei concerti, non bastanti però a scuotere l’apatia del taglialegna.
Ma una bella mattina di primavera, il vecchio, giacché dalla morte della moglie era incanutito, diventato curvo, parve svegliarsi da un lungo sonno e raddrizzando la magra persona, disse al figlio stupito:
— Falco, andiamo al lavoro. —
Entrambi presero l’accetta ed uscirono dal casolare.
— Non andremo molto lontano, — soggiunse il taglialegna — ecco là un albero contorto, secolare, a metà seccato dal fulmine, che fa duopo abbattere.
— Eccomi pronto ad aiutarti, babbo, — rispose Falco.
Si avvicinarono all’albero, che mostrava una larga apertura, come un profondo vano in cui poteva entrare un fanciullo.
Falco scorse qualche cosa di bianco che si muoveva in fondo a quel vano: era certo un gatto ivi rifugiato.
Mise la testa dentro la spaccatura e gettò un grido.
— Ebbene, che cosa c’è? — chiese il taglialegna con brusco tono. — Hai veduto la strega del bosco?
— No, babbo; è una bambina.
— Prendila, portala fuori. —
Il fanciullo non si fece ripetere l’ordine. Sparì un istante, poi ricomparve, tenendo fra le braccia una creaturina, avviluppata in cenci, una bimba dai capelli neri, ricciuti, della quale sarebbe stato impossibile definire l’età, tanto era piccina, macilenta, scarna ed i lineamenti si mostravano avvizziti come quelli di una vecchia.
— Come è brutta! — osservò il taglialegna. — Certo i suoi genitori hanno voluto sbarazzarsene, non sapendo che fare di simile mostriciatto. Noi le avremmo reso un servizio lasciandola dov’era, non risparmiandola colla nostra accetta.
— Oh, babbo, come puoi parlare così, tu che hai tanto cuore! — disse Falco. — Se dei cattivi l’hanno abbandonata, perché non la raccoglieremmo noi? Ella sarebbe per me una sorellina. — E sollevando il visino smunto della bimba:
— Saresti contenta di stare con me? — chiese.
La bimba aprì due occhi meravigliosi, che sembrarono al taglialegna ed a suo figlio due stelle, e rispose con una vocina melodiosa:
— Oh, sì, Falco! Se il tuo babbo lo vuole. —
Il taglialegna parve estatico al suono di quella voce, alla frase pronunziata e soprattutto allo scintillio di quelle pupille di pervinca, che si fissavano nelle sue. Egli prese in collo la bambina, la baciò.
— Lo voglio. — disse — Non hai paura di me?
— No, perché hai cuore, e non vorrai farmi del male.
— Chi ti ha detto che ho cuore?
— Falco, ed egli non è capace di mentire. —
La meraviglia del taglialegna raddoppiava a quelle risposte, date con tanto senno. Il vecchio si era seduto a terra, tenendo la bimba sulle ginocchia.
Falco le si pose accanto.
— Chi sei? — chiese il taglialegna. — Di dove vieni? Come ti trovavi dentro a quell’albero?
La bimba rise ed a quel riso la sua fisionomia un po’ cupa si rischiarò, prese una sì dolce espressione, che il vecchio rimase a bocca aperta a guardarla.
— Ho detto che sei brutta e mi sono ingannato, — esclamò. — Perdonami.

Uno Nessuno Centomila

Semper | Grande Narrativa

Naturalmente tutto parte dal naso del protagonista che secondo la moglie pende da un lato. E dalla infinita concatenazione di pensieri che da lì lo portano fino alla pazzia. Mai dar retta alle mogli!
Come ci vedranno gli altri? Come saremo veramente da fuori? Tutti ci pensiamo, Vitangelo però (che naturalmente è il protagonista del libro e non il vostro portinaio) ha il coraggio di provare a sostenere il suo vero io contro le proprie immagini. Naturalmente non ci riesce, si inimica tutti, combina diversi casini e alla fine viene dichiarato pazzo. E allora finalmente riesce ad essere libero e in fondo anche felice.
Però c’è un trucco: tutto questo, prima che Pirandello scrivesse Uno Nessuno Centomila non era mai stato scritto.
Ecco perchè Pirandello è Pirandello.

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I. Mia moglie e il mio naso.
– Che fai? – mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.
– Niente, – le risposi,
– mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino.
Mia moglie sorrise e disse:
– Credevo ti guardassi da che parte ti pende.
Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda:
– Mi pende? A me? Il naso?
E mia moglie, placidamente:
– Ma sí, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso destra.
Avevo ventotto anni e sempre fin allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti della mia persona. Per cui m’era stato facile ammettere e sostenere quel che di
solito ammettono e sostengono tutti coloro che non hanno avuto la sciagura di sortire un corpo deforme: che cioè sia da sciocchi invanire per le proprie fattezze. La scoperta improvvisa e inattesa di quel difetto perciò mi stizzí come un immeritato castigo.
Vide forse mia moglie molto piú addentro di me in quella mia stizza e aggiunse subito che, se riposavo nella certezza d’essere in tutto senza mende, me ne levassi pure, perché, come il naso mi pendeva verso destra, cosí…
– Che altro?
Eh, altro! altro! Le mie sopracciglia parevano sugli occhi due accenti circonflessi, ^ ^, le mie orecchie erano attaccate male, una piú sporgente dell’altra; e altri difetti…
– Ancora?
Eh sí, ancora: nelle mani, al dito mignolo; e nelle gambe (no, storte no!), la destra, un pochino piú arcuata dell’altra: verso il ginocchio, un pochino.
Dopo un attento esame dovetti riconoscere veri tutti questi difetti. E solo allora, scambiando certo per dolore e avvilimento, la maraviglia che ne provai subito dopo
la stizza, mia moglie per consolarmi m’esortò a non affliggermene poi tanto, ché anche con essi, tutto sommato, rimanevo un bell’uomo.
Sfido a non irritarsi, ricevendo come generosa concessione ciò che come diritto ci è stato prima negato. Schizzai un velenosissimo «grazie» e, sicuro di non aver motivo né d’addolorarmi né d’avvilirmi, non diedi alcuna importanza a quei lievi difetti, ma una grandissima e straordinaria al fatto che tant’anni ero vissuto senza mai cambiar di naso, sempre con quello, e con quelle sopracciglia e quelle orecchie, quelle mani e quelle gambe; e dovevo aspettare di prender moglie per aver conto che li avevo difettosi.
– Uh che maraviglia! E non si sa, le mogli? Fatte apposta per scoprire i difetti del marito.
Ecco, già – le mogli, non nego. Ma anch’io, se permettete, di quei tempi ero fatto per sprofondare, a ogni parola che mi fosse detta, o mosca che vedessi volare, in abissi di riflessioni e considerazioni che mi scavavano dentro e bucheravano giú per torto e su per traverso lo spirito, come una tana di talpa; senza che di fuori ne paresse nulla.
– Si vede, – voi dite, – che avevate molto tempo da perdere.
No, ecco. Per l’animo in cui mi trovavo. Ma del resto sí, anche per l’ozio, non nego. Ricco, due fidati amici, Sebastiano Quantorzo e Stefano Firbo, badavano ai miei affari dopo la morte di mio padre; il quale, per quanto ci si fosse adoperato con le buone e con le cattive, non era riuscito a farmi concludere mai nulla; tranne di prender moglie, questo sí, giovanissimo; forse con la speranza che almeno avessi presto un figliuolo che non mi somigliasse punto; e, pover’uomo, neppur questo aveva potuto ottenere da me. Non già, badiamo, ch’io opponessi volontà a prendere
la via per cui mio padre m’incamminava. Tutte le prendevo. Ma camminarci, non ci camminavo. Mi fermavo a ogni passo; mi mettevo prima alla lontana, poi sempre piú da vicino a girare attorno a ogni sassolino che incontravo, e mi maravigliavo assai che gli altri potessero passarmi avanti senza fare alcun caso di quel sassolino che per me intanto aveva assunto le proporzioni d’una montagna insormontabile, anzi d’un mondo in cui avrei potuto senz’altro domiciliarmi.
Ero rimasto cosí, fermo ai primi passi di tante vie, con lo spirito pieno di mondi, o di sassolini, che fa lo stesso. Ma non mi pareva affatto che quelli che m’erano passati avanti e avevano percorso tutta la via, ne sapessero in sostanza piú di me. M’erano passati avanti, non si mette in dubbio, e tutti braveggiando come tanti cavallini; ma poi, in fondo alla via, avevano trovato un carro: il loro carro; vi erano stati attaccati con molta pazienza, e ora se lo tiravano dietro. Non tiravo nessun carro, io; e non avevo perciò né briglie né paraocchi; vedevo certamente piú di loro; ma andare, non sapevo dove andare.
Ora, ritornando alla scoperta di quei lievi difetti, sprofondai tutto, subito, nella riflessione che dunque – possibile? – non conoscevo bene neppure il mio stesso corpo, le cose mie che piú intimamente m’appartenevano: il naso le orecchie, le mani, le gambe. E tornavo a guardarmele per rifarne l’esame.
Cominciò da questo il mio male. Quel male che doveva ridurmi in breve in condizioni di spirito e di corpo cosí misere e disperate che certo ne sarei morto o impazzito, ove in esso medesimo non avessi trovato (come dirò) il rimedio che doveva guarirmene.

La coscienza di Zeno

Semper| Grande Narrativa

Con La coscienza di Zeno iniziamo una nuova serie di Semper: la grande narrativa. Avete presente quei ibri che tranquillizza avere vicino? Quelli che, sia che li abbiate letti oppure che dobbiate ancora  leggerli, dovete assolutamente avere a disposizione? Quelli che siete sempre certi che da un momento all’altro inizierete a leggere? E che quando finalmente aprite vi rendono felici?

Beh! quelli li!

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Nel dormiveglia ricordo che il mio testo asserisce che con questo sistema si può arrivar a ricordare la prima infanzia, quella in fasce. Subito vedo un bambino in fasce, ma perché dovrei essere io quello? Non mi somiglia affatto e credo sia invece quello nato poche settimane or sono a mia cognata e che ci fu fatto vedere quale un miracolo perché ha le mani tanto piccole e gli occhi tanto grandi. Povero bambino! Altro che ricordare la mia infanzia! Io non trovo neppure la via di avvisare te, che vivi ora la tua, dell’importanza di ricordarla a vantaggio della tua intelligenza e della tua salute. Quando arriverai a sapere che sarebbe bene tu sapessi mandare a mente la tua vita, anche quella tanta parte di essa che ti ripugnerà? E intanto, inconscio, vai investigando il tuo piccolo organismo alla ricerca del piacere e le tue scoperte deliziose ti avvieranno al dolore e alla malattia cui sarai spinto anche da coloro che non lo vorrebbero. Come fare? È impossibile tutelare la tua culla. Nel tuo seno – fantolino! – si va facendo una combinazione misteriosa. Ogni minuto che passa vi getta un reagente. Troppe probabilità di malattia vi sono per te, perché non tutti i tuoi minuti possono essere puri. Eppoi – fantolino! – sei consanguineo di persone ch’io conosco. I minuti che passano ora possono anche essere puri, ma, certo, tali non furono tutti i secoli che ti prepararono.
Eccomi ben lontano dalle immagini che precorrono il sonno. Ritenterò domani.

Abrakadabra

Reincontri | Steampunk

Dunque, già il fatto che Ghislanzoni – il librettista dell’Aida – scrivesse un romanzo di fantascienza ambientato nella Milano nel 1982 è di per sé surreale.  Se a questo aggiungete tratti di preveggenza da far venire i brividi (“a quell’epoca – parlo del 1977 – l’Unione Europea era un fatto compiuto“),  fantastiche macchine steampunk, e un immaginario  romantico-scapigliato degno appunto del principale librettista verdiano, avrete l’idea del più improbabile (e un po’ sconclusionato) romanzo che certamente l’800 ha prodotto.
Dimenticavamo: il tutto introdotto da un bel racconto-prologo, che è in realtà la storia romanzata del ritiro di Ghislanzoni in montagna e della decisione di scrivere il libro.

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Così parlando, il Capo di Sorveglianza giunse nella sala di diramazione, dove, appena entrato, fece scattare una molla, la quale, per varii fili elettrici, era in comunicazione coi principali dipartimenti del palazzo.
Le pareti oscillarono, e dopo alcuni minuti, si apersero nei quattro lati della sala parecchie porticelle numerizzate, e a ciascuna porticella affacciossi un individuo, portante la divisa dei subalterni di sorveglianza.
Il Torresani salì sovra un pulpito e prese a diramare i suoi ordini.
– Numero uno: convocare i duecento nella sala di magnetismo, e arrestare nel termine di dieci minuti la nave sospetta.
– Numero due: recarsi da Duroni, e far ritrarre la nave in ventiquattro copie, dodici a fotografia colorata, dodici a fotografia ponderabile.
– Numero tre: riferire il numero preciso delle gondole stazionate nei diversi quartieri, e di quelle che tengono l’alto.
– Numero quattro: esaminare i tesseri dei singoli padroni di gondole, portanti le note giornaliere dal dieci settembre fino a questo giorno, e riferire l’itinerario di ciascun conduttore.
Ciascun subalterno, appena scoccato l’ordine, scompariva come fantasma, gli altri rimanevano in sentinella alle porte ad attendere i cenni del Capo.
Dopo un quarto d’ora di attesa, il numero due entrò nella sala, e depose sul pulpito del Torresani ventiquattro cartoni, sui quali era disegnata la nave volante.
Il Capo di Sorveglianza gettò una rapida occhiata sulle fotografie, indi rispose:
– Numero cinque: prendete una copia di questo disegno, e compite sollecitamente l’ispezione di raffronto.
– Numero sei: portate quest’altra copia nella sala di chimica onde sia ponderata e decomposta.
– Numero sette: a voi quest’altro cartone! fate l’inventario dei mobili, degli attrezzi, degli accessorii che appariscono alla superficie della nave.
– Numero otto: verificate se da qualche finestra o pertugio apparisce alcun frammento di figura umana, una testa, un naso, un orecchio, una gamba, non importa! riportatemi quei frammenti centuplicati di proporzioni.
Per alcuni minuti, fu nella sala un andirivieni di subalterni.
Il Torresani, dall’alto del suo pulpito, non cessava di impartire ordini a questi e a quelli. I suoi occhi grigi mandavano faville.
In termine di mezz’ora, i documenti più essenziali erano raccolti. Il Torresani li esaminava, li confrontava
con feroce compiacenza. Le sue labbra, frattanto, non cessavano di brontolare una specie di monologo, dal quale spiccavano tratto tratto degli ordini, delle interrogazioni, e più spesso dei grugniti di piacere.
– Voi dicevate, subalterno numero uno, che i vostri duecento magnetizzatori hanno durato molta fatica a trattenere la nave per dieci minuti, vuol dire che abbiamo delle volontà deboli, fors’anche dei contrari, dei traditori, che mangiano la pensione del Governo e servono ai cospiratori… Non importa… I cinque minuti hanno bastato al Duroni per darmi delle buone fotografie… La nave è di costruzione americana, porta il numero 2724, probabilmente un numero falso… Nel gran catalogo delle navi volanti ne abbiamo trovato una perfettamente identica a questa… Lo stesso disegno… la stessa forza… lo stesso peso… non c’è dubbio… Ah! ah!… Questa nave fu fabbricata a Rio Janeiro dagli industriali Thompson e Stefany… tre anni sono, e fu venduta
al Primate Michelet, il quale a sua volta la cedette al Bonafous pel servizio della retta fra Milano e Pietroburgo. Ah!… comprendo…! I Bonafous, due anni sono, la cedettero ai Calzado, fabbricatori di carte da giuoco a Madrid, poi… poi… Dacché i Calzado vennero sfrattati dalla Unione, la nave scomparve per due mesi, quindi fu riveduta e segnalata da parecchi aereoscopi, dapprima a Torino, poi a Napoli, quindi a Parigi, più tardi a Pietroburgo, a Berlino, a Lucerna. Confrontiamo le date di queste apparizioni colla Cronaca criminale delle città nominate… Ci siamo…! Ecco…! Sta bene!…
L’avrei indovinato; a Torino una sorpresa notturna alle guardie del tesoro reale; a Napoli una sottrazione di monete antiche al pubblico Museo; a Parigi vincite considerevoli al maccao per parte di un truffatore; a Pietroburgo, a Vienna, a Lucerna altri fatti dell’egual genere… Dapertutto, l’apparizione di questa nave ha portato la truffa, l’aggressione, il delitto… Dunque io non mi era ingannato… Là dentro c’era un nido di briganti, di barattieri, fors’anche di assassini… E voi, signori uffiziali di magnetismo, non avete avuto forza di trattenerli una mezz’ora, tanto che io potessi ottenere un mandato di arresto eccezionale… Basta!… C’è ancora una speranza… Non tutti quei bricconi saranno partiti colla nave… può darsi che qualcuno sia rimasto fra noi… Il Lissoni, proprietario di gondole al quartiere del Macello pubblico, riferisce che uno dei suoi conduttori, il nominato Bigino, per cinque notti consecutive fece delle ascensioni fuori di torno, a fanali spenti.
Eh! di là! Numero quattordici! conducetemi tosto il Bigino! Egli è disceso stamattina prima dell’albeggiare; non è improbabile che la sua gondola abbia portato abbasso uno di quei gabbamondo… E noi lo conosceremo… perdio! E s’io riesco a pigliar in mano un filo della matassa… giuro districarla in pochi giorni… e vi prometto che quella galera di birboni non farà, quindi innanzi, un lungo viaggio!…

Le avventure di Pinocchio

Ragazzi per Sempre | Racconti

Pinocchio è talmente famoso che a tutti sembra di conoscerlo. Ma non è mica tanto vero! Sapevate che Collodi (che non si chiamava affatto Collodi ma Lorenzini) lo scrive in due volte e che inizialmente non intendeva scrivere un racconto per bambini? Infatti la prima versione finisce con l’impiccagione di Pinocchio!  Poi il romanzo esce a puntate nel Giornale per ragazzi e quasi raddoppia e si arricchisce  di personaggi e situazioni sempre più fantasmagoriche e irreali. Tanto che Pinocchio finisce per assomigliare al fratellino un po’ sfigato di Alice. Ovviamente il finale della storia è un “tantino” diverso…

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La casa di Geppetto era una stanzina terrena, che pigliava luce da un sottoscala. La mobilia non poteva essere più semplice: una seggiola cattiva, un letto poco buono e un tavolino tutto rovinato. Nella parete di fondo si vedeva un caminetto col fuoco acceso; ma il fuoco era dipinto, e accanto al fuoco c’era dipinta una pentola che bolliva allegramente e mandava fuori una nuvola di fumo, che pareva
fumo davvero.
Appena entrato in casa, Geppetto prese subito gli arnesi e si pose a intagliare e a fabbricare il suo burattino.
– Che nome gli metterò? – disse fra sé e sé. – Lo voglio chiamar Pinocchio. Questo nome gli porterà fortuna.
Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio
il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi, e tutti se
la passavano bene. Il più ricco di loro chiedeva l’elemosina.
Quando ebbe trovato il nome al suo burattino, allora
cominciò a lavorare a buono, e gli fece subito i capelli, poi
la fronte, poi gli occhi.
Fatti gli occhi, figuratevi la sua maraviglia quando si accorse che gli occhi si muovevano e che lo guardavano fisso fisso.

Dizionarietto Rompitascabile degli Editori Italiani

Pensiero Fossile |

Il libro è semplice: un elenco di tutti gli editori italiani del 1928, con un piccolo commento per ciascuno. Eppure è un libro bellissimo. Formiggini, è uno di quei personaggi che scompaiono dalla storia, ma che poi, quando si rincontrano per caso sono luminosi. Infine, la nostra riedizione è ripresa da una precedente fatta nel 2004 da Stampa Alternativa. E’ loro il merito di aver ripubblicato il Dizionarietto. Nostro è solo quello di riproporlo. Tra l’altro CastelloVolante non esisterebbe se noi, nel 2004, non avessimo per caso letto il loro Formiggini.

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LATERZA – Per solito sono i padri che fondano le case editrici che poi tramandano ai figli. Invece qui abbiamo Giovanni che nel 1901 crea in Bari un’azienda editrice in nome di suo padre e dei suoi fratelli. Sentendosi privo di costanza e di coraggio (lo dice lui!) scelse il motto: constanter et non trepide ed a furia di vederlo stampato su migliaia e migliaia di copertine e di frontespizi ha finito per sentirsi «costante ed ardito». E, in un quarto di secolo, di strada ne ha fatta! Giovanni ha un sacco di fratelli e un nuvolo di figli, cosí ci sono in famiglia varie aziende concentriche, intercomunicanti ma distinte: Editoria – Libreria – Tipografia – Cartoleria.
Nel suo studio, Giovanni ha una parete intera tappezzata con un ritrattone fotografico di Benedetto Croce, nume tutelare della casa, al quale egli potrebbe davvero accendere un miliardo di candele. C’è anche un ritratto di Gentile, ma molto piú piccolo. Quando Laterza viene a Roma, non manca mai di fermarsi a Napoli per salutare don Benedetto che gli offre da pranzo e da dormire. Alla mattina per il fresco, quando il filosofo dorme, Laterza se la svigna all’inglese, si rimette in treno e viene a Roma a far colazione da Giovanni Gentile. Della sua imparzialità fra i due augusti contendenti, Laterza molto si vanta: ma è certo che l’imparzialità gli è provvidenziale, se no andrebbe a farsi benedire il pranzo o la colazione.
Laterza ha degli aforismi caustici, per esempio: «L’Editore deve applicare la massima: ognuno per sé e
Dio per tutti».
E quest’altro: «L’Editore deve guadagnare sempre: l’Editore che non guadagna è un fesso».

SALANI – Quando io ero ragazzo, per disprezzare un libro, si diceva edizioni «Salami», perché questa casa cominciò coi libercoli e le canzonette. Oggi lo stabilimento tipografico Salani è un modello ammirevole, ed ammirato e invidiato da tutti gli editori italiani.
La ditta fu fondata da Adriano nel 1862, gli succedette il figlio Ettore nel 1904 il quale è aiutato a sua volta da un suo bravo figliuolo: Mario. Il fenomeno Salani è unico al mondo; è basato su questi princípi: perfezione grafica, prezzi minimi, irrisori, sí da poter contare su tirature sesquipedali.
Non un soldo di debito, non un soldo di credito. Dicono che quando gli arriva una nuova macchina o un vagone di carta, Salani faccia aspettare i facchini sulla strada, e non lasci entrare la merce se non ha prima fatto un vaglia per pagarla. E si favoleggia che parecchi anni fa la U.T.E.T. avesse occasione di ordinare un libro al Salani, il quale avrebbe scritto: «Illustri colleghi, io vendo solo a contanti, ma trattandosi di una casa come la vostra, per deferenza specialissima, spedisco contro assegno». (Se non è vera è ben trovata).
Il solo che se la rida della crisi del libro è proprio Salani: l’Oceano è solcato ogni giorno da migliaia di piroscafi, rigurgitanti di sue edizioni. L’editore fiorentino afferma che non è vero che il popolo non ami la lettura, e racconta che un giorno ebbe un telegramma di un tale che, per carità, lo supplicava di mandargli il seguito di un romanzo che stava uscendo a dispense, perché una moribonda temeva di non fare in tempo a leggere la conclusione. Salani, impietosito, tirò al torchio le pagine non ancora stampate, ed ebbe poi una lettera di ringraziamento: la povera malata era stata esaudita,
ed aveva detto: «Ora posso morire contenta».
Ed era morta.

Le due Tigri

Ragazzi per Sempre| Avventura

Dopo aver imperversato nel Borneo, il duo Sandokan-Tremal-Naik si prende una vacanza in India. Si sa, gli eroi son gente abitudinaria: fanciulle da salvare (in questo caso la figlia dell’indiano), appassionanti cacce ai cattivi (qui il capo dei Thugs, arrivato da Bolzano)…insomma, atti inutili di eroismo masochista. CastelloVolante con questo chiude la parentesi Salgari, sempre che non ci sia una rivoluzione da parte dei fedelissimi!!!

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Appena però oltrepassati quei villaggi, la jungla riprendeva il suo impero, insieme agli stagni che diventavano sempre piú numerosi, ingombri di piante in decomposizione, e di paletuvieri, le piante della febbre.
Miriadi di trampolieri s’alzavano dalle rive all’apparire dei due giganteschi elefanti, salutati dai cacciatori da qualche colpo di fucile che non andava mai a vuoto.
Erano vere nuvole di aironi giganti, di cicogne nere, di ibis, che nell’India sono brune invece di essere bianche, di anitre bramine, di folaghe dalle penne color porpora a riflessi d’indaco e di marangoni che anche fuggendo non abbandonavano i pesci presi allora negli stagni, ordinariamente dei manghi, piccoli, rossi, e assai stimati dai bengalesi per la delicatezza delle loro carni.
Fra le canne fuggivano anche dei bellissimi capi di selvaggina e cosí agilmente da cadere di rado sotto i colpi dei cacciatori. Erano dei graziosi axis, somiglianti ai daini comuni, col pelame fulvo picchiettato di bianco; degli eleganti nilgò, dalla testa cornuta, che scomparivano colla rapidità d’una freccia; poi torme di cani selvaggi, dal pelame bruno, e grossi sciacalli, pericolosi se sono spinti dalla fame.
Anche qualche tcita, piccole e bellissime pantere, assai sanguinarie, e che si addomesticano facilmente, si mostravano per qualche istante sul margine delle macchie piú folte, per poi rintanarsi quasi subito.
– Questo è il vero paradiso dei cacciatori! esclamava Sandokan, che si entusiasmava, vedendo a fuggire tutta quella selvaggina. – Peccato che dobbiamo occuparci piú dei Thugs che delle tigri, dei bufali, e dei rinoceronti.
– Questa notte non dormirò, – ripeteva dal canto suo Yanez. – Andrò a cacciare all’agguato. Si dice che sia una caccia non meno emozionante. È vero Tremal-Naik?
– E anche piú pericolosa, – rispondeva il bengalese.
– Condurremo con noi anche Darma e la lanceremo addosso agli axis ed ai nilgò. M’immagino che l’avrai abituata a cacciare.
– Vale quanto una tcita meglio ammaestrata, mio caro Sandokan.
– Di quelle piccole pantere che abbiamo vedute a fuggire?
– Sí.
– Si ammaestrano per la caccia?
– E che abili cacciatori diventano! – esclamò Tremal-Naik. – La mia Darma farà però di piú e non esiterà ad assalire anche i bufali.
– A proposito, dov’è quella briccona? – chiese Yanez. – Quando siamo sugli elefanti sta sempre lontana.
– Non temere, – rispose Tremal-Naik, – ci segue sempre e la vedrai riapparire all’ora della cena, se non ha cacciato per suo conto.
– Vedo un canale dinanzi a noi, – disse in quel momento Sankan – Andremo ad accamparci sulla riva opposta. Gli animali abbondano di piú sulle rive dei fiumi.
Un fiumicello, largo una decina di metri, dalle acque giallastre e melmose, tagliava la via, scorrendo fra due rive ingombre di paletuvieri, sui cui rami arcuati si tenevano immobili molti marabú, quegli ingordi divoratori di cadaveri e di carogne.
– Attento, cornac, – disse Tremal-Naik. – Vi saranno dei gaviali in quel canale.
– Il mio elefante non li teme, – rispose il conduttore.
I due colossi si erano fermati sulla riva, tastando prudentemente il terreno e fiutando rumorosamente l’acqua, prima d’inoltrarsi.
Non parevano troppo convinti della tranquillità che regnava sotto quel liquido fangoso.
– Sono certo di non essermi ingannato, – disse Tremal-Naik, alzandosi. – Gli elefanti hanno fiutato qualche gaviale e hanno paura di venire crudelmente morsicati.
Il coomareah, che doveva essere piú risoluto del compagno, si decise finalmente ad entrare nell’acqua, la quale era abbastanza profonda, arrivando fino ai fianchi del colosso.
Aveva percorsi appena tre o quattro metri, quando s’arrestò di colpo imprimendo all’haudah una scossa cosí brusca, che per poco i cacciatori non furono sbalzati nell’acqua.
– Che cosa c’è? – chiese Sandokan, afferrando la carabina. Il coomareah dopo quel soprassalto aveva mandato un barrito formidabile, poi aveva immersa rapidamente la tromba in acqua, retrocedendo lestamente.
– L’ha preso! – gridò il cornac.
– Che cosa? – chiesero ad una voce Yanez e Sandokan.
– Il gaviale che l’aveva morso.
La proboscide si era alzata. Stringeva un mostruoso rettile, somigliante ad un coccodrillo, armato di due mascelle formidabili irte di denti aguzzi e giallastri.
Il mostro, strappato dal suo elemento, si dibatteva furiosamente, cercando di colpire colla robusta coda, coperta, al pari del dorso, di piastre ossee, l’elefante; ma questi si guardava bene dal lasciarsi cogliere.
Lo teneva bene in alto e pareva che provasse un piacere maligno a far crepitare le piastre.
– Lo soffocherà? – chiese Yanez.
– Mai piú: vedrai come farà pagare al rettile il morso ricevuto. Questi pachidermi sono bravi ed intelligentissimi e sono pure estremamente vendicativi.
– Allora lo schiaccerà sotto i piedi.
– Nemmeno.
– Vediamo dunque quale genere di morte destina a quel povero sauriano, giacché suppongo che non lo risparmierà.
– Riderai, – disse Tremal-Naik, – non vorrei però trovarmi al posto del gaviale.
Il coomareah, senza curarsi degli sforzi del disgraziato ed incauto sauriano, e tenendolo sempre ben alto per evitare i colpi di coda, indietreggiò fino alla riva che risalí poi lestamente, dirigendosi tosto verso un gigantesco tamarindo che cresceva isolato in mezzo ai bambú, lanciando in tutte le direzioni i suoi rami intricatissimi. Guardò per alcuni istanti l’enorme vegetale, poi trovato ciò che gli conveniva, depose il rettile fra due biforcazioni, cacciandovelo dentro a forza in modo che non potesse piú liberarsene.
Ciò fatto mandò un lungo barrito che doveva essere di soddisfazione e ritornò tranquillamente verso il canale sbuffando e dondolando comicamente la tromba, mentre un lampo maligno brillava nei suoi occhietti neri.

Don Chisciotte della Mancia

Semper |
Qual’è il fascino di Don Chisciotte? Il crearsi caparbiamente una realtà arbitraria in cui vivere? Il contestare il mondo contro la stessa storia? Il decidere di volerlo cambiare senza la considerazione delle proprie forze? Lo spregio del ridicolo? La serenità rivoluzionaria?
Forse, anche! Ma il suo vero fascino sta nel fatto che in fondo al nostro cuore Alonso Quijano, in cavalleria Don Chisciotte, rappresenta la parte di tutti noi che non si rassegna, e vorrebbe trovare il coraggio di tornare in un mondo nobile, vedere le cose con altri occhi e con la serenità di un bambino scagliarsi contro i mulini a vento. E a quel paese tutti quanti!
Del resto ce lo insegnano dall’inizio della Storia che basta un Giusto – a volte anche un po’ ridicolo – per salvare il mondo.
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L’oste che vide don Chisciotte posto attraverso dell’asino, domandò a Sancio che male avesse. Sancio rispose essere cosa di niente; ch’era caduto da un masso e si era ammacate un poco le costole.
Aveva l’oste una moglie d’indole diversa da quelle che sogliono esercitare tal professione, naturalmente caritativa e compassionevole delle altrui miserie. Si applicò ella a medicare l’ammalato, e volle pure che la aiutasse una sua figlia, nubile, giovane e di buona grazia. Serviva nella stessa osteria una giovanotta asturiana con viso schiacciato, colla collottola spianata, col naso un po’ storto, guercia da un occhio e ammalaticcia dall’altro; ma la sua gagliardia di corpo contrabilanciava tutti questi difetti. Non era alta sette palmi, e le spalle alquanto aggobbate la costringevano a guardare a basso più di quello che avrebbe voluto.
Anche questa ragazza garbata aiutò l’altra, ed ambedue allestirono un cattivo letto per don Chisciotte in un sito che mostrava di avere già servito da pagliaio molti anni, e dove tuttavia stavasi un vetturale il cui letto poco discosto da quello del nostro cavaliere errante, era fatto colle bardelle, ossia coperte dei muli, e contuttociò era migliore di quello di don Chisciotte, formato da due tavole mal piallate e mal collocate su due panche disuguali; un materasso che per leggerezza pareva un’imbottita ripiena di palle da balestra, che sarebbersi credute pietre se da qualche sdrucitura non si fosse veduto che veramente era lana; due lenzuola di cuoio di targhe così sfilate che avrebbe potuto numerarne i fili chiunque avesse avuto tal voglia.
In questo tristissimo letto entrò don Chisciotte, e l’ostessa e sua figlia gli applicarono empiastri dal capo ai piedi, facendo lume Maritorna, che così chiamavasi l’Asturiana. Vedendo l’ostessa nell’ungerlo, che don Chisciotte avea molte lividure sparse per il corpo, si avvisò che ciò fosse proceduto piuttosto da percosse che da caduta.

— Non sono state percosse, disse Sancio, ma la natura del monte scabroso e pieno di pietre, ciascuna delle quali impresse il suo segno; e poi soggiunse: Piaccia alla signoria vostra di fare che avanzi un po’ di stoppa, che vi sarà altro sito bisognoso, perché io pure mi sento addolorato alquanto nei lombi.
— Se così è, disse l’ostessa, convien dire che siate voi pure caduto.
— Eh non è questo, rispose Sancio, ma il batticuore che mi assalì quando vidi precipitare il padrone mi ha prodotto una scossa sì grande da rendermi tanto addolorata tutta la persona come se mi avessero bastonato con mille bastoni.
— Questo può essere, soggiunse la ragazza mentre anche a me accadde le molte volte di sognare di cader dall’alto di una torre senza arrivar mai abbasso; e svegliandomi trovarmi sì pesta e macinata come se la caduta fosse stata realmente vera. — Qui sta il guaio, o signora, rispose Sancio Pancia, che io senza far sogni di sorta, ma standomi desto come sono presentemente, mi trovo tutto coperto
di lividure come il mio signor padrone.
— Come si chiama egli questo cavaliere? gli domandò l’asturiana Maritorna.
— Don Chisciotte della Mancia, rispose Sancio, ed è cavaliere venturiero dei più celebri e valorosi che da molto tempo in qua siensi veduti al mondo.
— Che significa cavaliere venturiero? soggiunse la serva
— Siete voi sì bambina al mondo, rispose Sancio, che nol sapete? Vi sia dunque noto, sorella mia, che cavaliere venturiero è uno che in due parole si vede bastonato e imperatore: oggi è la più sventurata e la più bisognosa creatura del mondo, e avrà dimani due o tre corone di regni da regalare al suo scudiere
— Ma come mai dunque, disse l’ostessa, non possedete almeno qualche contea?
— È troppo presto, rispose Sancio; perché da un mese soltanto andiamo cercando avventure, e non ne abbiamo finora incontrata alcuna che potesse darci un sì gran bene: e poi le tante volte l’uomo trova altra cosa da quella che cerca. Ma in verità che se il mio signor don Chisciotte guarisceda questa ferita, cioè, caduta, ed io non ne rimango storpiato, in verità che non rinunzierei alle mie speranze pel maggiore titolo di Spagna.

Alice attraverso lo Specchio

Ragazzi per Sempre | Racconti

Il secondo libro di Alice prende le mosse sei mesi dopo che Alice è tornata a Casa. Un pomeriggio sta sonnecchiando in salotto quando si chiede cosa c’è dall’altra parte dello specchio e … ci passa attraverso, come in Matrix. Poi si ritrova nuovamente nel paese delle meraviglie logiche e dei nonsense …

Nella realtà però era passato un sacco di tempo. Lewis Carrol era diventato famoso come scrittore e come fotografo … rimanendo anonimo come Charles Dodgson – la sua identità reale – nome con il quale continuava a insegnare matematica a Oxford con poca passione. La piccola Alice invece aveva ora 21 anni e il libro l’aveva resa piuttosto nota. Le foto (che si trovano facilmente su google cercando Alice Liddell) ritraggono una giovane dallo sguardo intenso e deciso … Il matematico e la bambina che hanno affascinato il mondo.
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Vi era un libro sul tavolo accanto, e Alice, mentre se ne stava seduta a guardare il Re Bianco (perchè ancora si sentiva un po’ in ansia per lui e aveva l’inchiostro pronto per gettarglielo sul viso, in caso dovesse svenire di nuovo) si mise a voltare le pagine per trovar qualche parte che potesse leggere, “perchè è stampato tutto in una lingua che io non conosco”, diceva fra sè.

Era così:

irrat ilgil i e eccoc a are’S
,ottehcsip len navallertrig
irranicnec i icsol ittut
ottets egnol navaigguffus.

Essa guardò impacciata per qualche tempo; ma finalmente le venne un lampo di luce:
— Naturalmente è un libro della Casa dello Specchio. E se io lo metto contro uno specchio, le parole si raddrizzeranno.

Questa era la poesia che Alice lesse:

S’era a cocce e i ligli tarri
girtrellavan nel pischetto,
tutti losci i cencinarri
suffuggiavan longe stetto.

“Figlio attento al Giabervocco:
ha gli artigli ed ha le zanne,
ed attento, attento aI Tocco,
e disprezza il frumio Stranne!”

Egli prese in man la spada —
da gran tempo lo cercava —
e sull’albero di nada
in pensiero riposava.

Mentre stava sì in pensiero
ecco il Giabervocco appare
per il bosco artugio e fiero
tutte alunche fiamme pare.

Uno e due! Ecco che fa
l’itra spada zacche, zacche.
L’erpa testa ei lascia, e va
galonfando pel pirracche.

“Hai ucciso il Giabervocco!
Vieni, figlio, che t’abbracci,
vieni, figlio, al bardelocco
dei dì lieti di limacci!”

S’era a cocce e i ligli tarri
girtrellavan nel pischetto,
tutti losci i cencinarri
suffuggiavan longe stetto.

— Sembra bella, — essa disse, quando l’ebbe finita, — ma è piuttosto diffìcile a capire! (Come vedete, non confessava neanche a sè stessa che non poteva comprenderla.) Però mi pare che mi riempia la testa d’idee… Soltanto non so di che si tratti. Certo qualcuno uccise qualche cosa:comunque sia questo è chiarissimo…
“Ma, ohi! — pensò Alice, levandosi immediatamente, — se non faccio in fretta, dovrò ritornare oltre lo specchio, prima d’aver visitato il resto della casa. Vado prima a dare un occhiata al giardino.”
In un istante era fuori della stanza e correva giù per le scale… Veramente correre non è la parola esatta. La sua era una nuova invenzione per far le scale rapidamente e facilmente, come diceva Alice a sè stessa. Essa poggiava la punta delle dita sulla ringhiera, e andava leggermente giù senza neanche toccare i gradini coi piedi; poi volò giù per l’atrio, e sarebbe andata dritta alla porta nello stesso modo, se non si fosse afferrata al pilastro. Sentiva un po’ di vertigine passando così per aria e fu lieta quando si accorse che camminava di nuovo nel modo solito.

Alice nel Paese delle Meraviglie

Ragazzi per Sempre |  Racconti
Beh! Oggi un pezzettino di CastelloVolante è andato via e tutti eravamo tristi: la vita è fatta così – lo sappiamo anche noi che crediamo nelle favole – però mica deve piacerci!
E così, abbiamo cambiato programma. Ci voleva un libro che ci rincuorasse e abbiamo deciso di pubblicare Alice nel Paese delle Meraviglie.
Alice, la bambina che vive a metà tra il fantastico e il reale, che non si scompone mai, che stupisce di niente, che niente e nessuno ferma.
E ci siamo sentiti subito meglio.
Venite con noi a caccia di Bianconigli?
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Alice cominciava a sentirsi assai stanca di sedere sul poggetto accanto a sua sorella, senza far niente: aveva una o due volte data un’occhiata al libro che la sorella stava leggendo, ma non v’erano nè dialoghi nè figure, — e a che serve un libro, pensò Alice, — senza dialoghi nè figure?
E si domandava alla meglio, (perchè la canicola l’aveva mezza assonnata e istupidita), se per il piacere di fare una ghirlanda di margherite mettesse conto di levarsi a raccogliere i fiori, quand’ecco un coniglio bianco dagli occhi rosei passarle accanto, quasi sfiorandola.

Non c’era troppo da meravigliarsene, nè Alice pensò che fosse troppo strano sentir parlare il Coniglio, il quale diceva fra se: “Oimè! oimè! ho fatto tardi!” (quando in seguito ella se ne ricordò, s’accorse che avrebbe dovuto meravigliarsene, ma allora le sembrò una cosa naturalissima): ma quando il Coniglio trasse un orologio dal taschino della sottoveste e lo consultò, e si mise a
scappare, Alice saltò in piedi pensando di non aver mai visto un coniglio con la sottoveste e il taschino, nè con un orologio da cavar fuori, e, ardente di curiosità, traversò il campo correndogli appresso e arrivò appena in tempo per vederlo entrare in una spaziosa conigliera sotto la siepe.
Un istante dopo, Alice scivolava giù correndogli appresso, senza pensare a come avrebbe fatto poi per uscirne.

La buca della conigliera filava dritta come una galleria, e poi si sprofondava così improvvisamente che Alice non ebbe un solo istante l’idea di fermarsi: si sentì cader giù rotoloni in una specie di precipizio che rassomigliava a un pozzo profondissimo.
Una delle due: o il pozzo era straordinariamente profondo o ella ruzzolava giù con grande lentezza, perchè ebbe tempo, cadendo, di guardarsi intorno e di pensar meravigliata alle conseguenze.
Aguzzò gli occhi, e cercò di fissare il fondo, per scoprire qualche cosa; ma in fondo era buio pesto e non si scopriva nulla.
Guardò le pareti del pozzo e s’accorse che erano rivestite di scaffali di biblioteche; e sparse qua e là di mappe e quadri, sospesi a chiodi. Mentre continuava a scivolare, afferrò un barattolo con un’etichetta, lesse l’etichetta: “Marmellata d’Arance” ma, oimè! con sua gran delusione, era vuoto; non volle lasciar cadere il barattolo per non ammazzare chi si fosse trovato in fondo, e quando arrivò più giù, lo depose su un altro scaffale.

“Bene, — pensava Alice, — dopo una caduta come questa, se mai mi avviene di ruzzolare per le scale, mi sembrerà meno che nulla; a casa poi come mi crederanno coraggiosa! Anche a cader dal tetto non mi farebbe nessun effetto!” (E probabilmente diceva la verità).
E giù, e giù, e giù! Non finiva mai quella caduta? — Chi sa quante miglia ho fatte a quest’ora? — esclamò Alice. — Forse sto per toccare il centro della terra. Già saranno più di quattrocento miglia di profondità. — (Alice aveva apprese molte cose di questa specie a scuola, ma quello non era il momento propizio per sfoggiare la sua erudizione, perchè nessuno l’ascoltava; ma ad ogni modo non era inutile riandarle mentalmente.) — Sì, sarà questa la vera distanza, o press’a poco,… ma vorrei sapere a qual grado di latitudine o di longitudine sono arrivata. (Alice veramente,non sapeva che fosse la latitudine o la longitudine, ma le piaceva molto pronunziare quelle parole
altisonanti!) Passò qualche minuto e poi ricominciò: — Forse traverso la terra! E se dovessi uscire fra quelli che camminano a capo in giù! Credo che si chiamino gli Antitodi.
— Fu lieta che in quel momento non la sentisse nessuno, perchè quella parola non le sonava bene… — Domanderei subito come si chiama il loro paese… Per piacere, signore, è questa la Nova Zelanda? o l’Australia?
cercò di fare un inchino mentre parlava (figurarsi, fare un inchino, mentre si casca giù a rotta di collo! Dite, potreste voi fare un inchino?). — Ma se farò una domanda simile mi prenderanno per una sciocca. No, non la farò: forse troverò il nome scritto in qualche parte.
E sempre giù, e sempre giù, e sempre giù! Non avendo nulla da fare, Alice ricominciò a parlare: — Stanotte Dina mi cercherà. (Dina era la gatta). Spero che penseranno a darle il latte quando sarà l’ora del tè. Cara la mia Dina! Vorrei che tu fossi qui con me! In aria non vi son topi,
ma ti potresti beccare un pipistrello: i pipistrelli somigliano ai topi. Ma i gatti, poi, mangiano i pipistrelli? —
E Alice cominciò a sonnecchiare, e fra sonno e veglia continuò a dire fra i denti: — I gatti, poi, mangiano i pipistrelli? I gatti, poi, mangiano i pipistrelli? — E a volte: — I pipistrelli mangiano i gatti? — perchè non potendo rispondere nè all’una nè all’altra domanda, non le
importava di dirla in un modo o nell’altro. Sonnecchiava di già e sognava di andare a braccetto con Dina dicendole con faccia grave: “Dina, dimmi la verità, hai mangiato mai un pipistrello?” quando, patapunfete! si trovò a un tratto su un mucchio di frasche e la caduta cessò.

Entusiasmi

Reincontri | Roberto Sacchetti

Le cinque giornate di Milano nel più bel romanzo scritto su quei giorni.
Trent’anni dopo le 5 giornate, un giovane scrive un romanzo sulla rivolta. Sacchetti era stato con Garibaldi in Tirolo, poi diventa giornalista e scrittore. E’ uno scapigliato e un rivoluzionario, a Milano dirige il Pungolo – il giornale dell’avanguardia -, ha fonti di prima mano, ha cose da dire.  Avrà destino tragico: a 32 anni, mentre scrive questo libro, muore. Lo dicono gli editori nella prefazione.
E voi pensate di leggere Il Cimitero  di Praga ?

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Seguitò così ad addottrinarlo nelle regole e negli usi della Società in cui stava per farlo inscrivere.
Avevano, discorrendo, percorsa la via Tre Alberghi, svoltavano a sinistra in via del Pesce.
La via non era che debolmente rischiarata da un piccolo fanale infisso in fondo nel muro del palazzo Reale. La semioscurità, delle persone che andavano rasente il muro, e le porte che si chiudevano silenziosamente dietro a loro, de’ bisbigli negli angoli e negli sfondi degli usci, irritavano la fantasia di Guido.
Balestra aveva rallentato il passo e taceva; si fermò a una porticina a sinistra, quella stessa della sera innanzi. Subito lo sportello si aprì e comparve nel vano una figura femminile, una faccia pallida con due occhi lustri che cercavano. Si ritrasse per lasciarli passare e li seguì nel corridoio buio.
Balestra condusse allora il compagno su per una scaletta ripida e lubrica per il pattume
viscido e denso.
A una voce della donna, si spalancò un uscio sul pianerottolo in alto lasciando cadere una striscia di luce obliqua, che tagliò in due la scala. Si affacciò un’altra donna giovane con de’ fiori finti nei capelli, un abito di seta gualcito, un fisciù di maglia bianco incrociato sul seno piatto.
Venne incontro a Guido ch’era passato il primo, mentre Balestra scambiava a bassa voce qualche parola con quell’altra e, senza guardarlo, lo prese famigliarmente per il braccio dicendogli con voce commossa:
— Buona sera, biondino.
E Guido era, si sa, bruno come sua madre.
Ma, a un’occhiata di Balestra si tirò indietro e lasciò passare i due uomini in una stanzaccia dove si sentiva un tanfo ributtante, un puzzo d’olio e di liquori spiritosi e le esalazioni della carbonella che ardeva in un ampio braciere nel mezzo. Non c’erano altri mobili che un grande specchio arrugginito, coperto di moscature, e quattro o cinque sedie di crine.
— Se non lo sapessi, — disse Balestra a Guido, — non supporresti mai che qui si cospiri; e il buono si è che non lo sospetterebbe neppure la Polizia. La quale diffidente di tutte le riunioni serie, è credenzona e indulgente con le conventicole viziose e le case da giuoco; perciò noi ci raccogliamo in esse e sfruttiamo l’immorale privilegio a profitto della nostra santa causa. Per la fede non vi sono mezzi turpi, — aggiunse solennemente, — Cristo, nostro Reggitore, non si valse della peccatrice per propagare il suo Vangelo? Capisci?
— Ho capito: voi vi fate bruchi per diventare farfalle.
— Bravo: nessuno, neppure queste donne conoscono lo scopo vero per cui ci raccogliamo, nessuno saprebbe distinguere i cugini dalle altre persone che vengono qui liberamente. Il solo Gran Cugino li distingue. Se queste donne e gli estranei fossero interrogati, potrebbero giurare in buona fede che noi si viene qui unicamente per far la partita a tressette o a bazzica.
Gli disse poi d’aspettarlo lì ed entrò in un usciolo da cui usciva un rumore confuso di voci.
La donna che li aveva ricevuti passeggiava su e giù per la stanza sbirciando Guido ogni
volta che gli passava davanti. Poco dopo entrò anche l’altra rimasta da basso scotendo la persona intirizzita e brontolando:
— Oh, per stasera basta, non scendo più passasse il Viceré. C’è da perderne gli orecchi; tocca, son due ghiaccioli, ma piano ehi! che si spezzano.
L’altra sghignazzava.
Sedettero presso al braciere, trassero in mezzo a loro una sedia; una cavò fuori un mazzo di carte bisunte e la partita cominciò con un accanimento che ben presto assorbì tutta la loro attenzione.
Dopo un quarto d’ora Balestra ricomparve e l’invitò a seguirlo.
Nel corridoio gli buttò addosso una specie di tappeto, gliene tirò un lembo sul viso,
avvertendolo però che poteva guardare, e lo introdusse in un luogo buio, salvo un sottile filo di luce scialba che uscendo da una lanterna chiusa attraversava diagonalmente la tavola in mezzo.
Una voce cupa domandò:
— Buon cugino, chi mi conduci?
Balestra rispose alterando la voce anche lui:
— Uno smarrito.
— E che vuoi farne?
— Un veggente.
— Il suo zelo?
— Fervido.
— La sua parola?
— Salda.
— Il suo braccio?
— Sicuro.
— Ne risponde?
— Il mio sangue.
— Il suo battesimo?
— Emilio.
Allora venne la volta di Guido.
L’invisibile inquisitore domandò
— Emilio, donde vieni?
Balestra suggeriva, Guido rispose:
— Dalla foresta.
— E cerchi?
— Luce.
La lanterna aprì in viso a Guido un occhio di fuoco.
— Che ti occorre?
— Un segno per trovare il cammino; un ferro per abbattere i rami.
Guido distingueva dietro la tavola tre figure ravvolte in bautte nere, mascherate, in piedi.
Quello di mezzo che aveva parlato, si voltò al compagno di destra:
— Dategli il segno che redime.
Colui s’avanzò e porse a Guido l’impugnatura di un pugnale, foggiato a croce.
Guido lo baciò.
L’inquisitore disse al compagno di sinistra:
— Dategli il ferro che recide.
E quello si fe’ innanzi a sua volta, e prese il pugnale dalle mani del primo che ritornò al suo posto e lo porse a Guido dalla parte della lama.
Lui lo diede a Balestra che gliel’appuntò contro il petto.
L’accusatore soggiunse:
— Lo riconoscerai?
— Con devozione.
— Lo vibrerai?
— Sempre che mi sia imposto.
— Per chi?
— Per la libertà.
— Orsù, — e gli stese sopra una tavola una mano, — orsù, tu riceverai le commissioni della vendita, tienti pronto.
Dove mai Guido aveva vista quella mano? Riconosceva quell’indice deformato, ma non si
rammentava.
— Vieni, — gli disse Balestra prendendolo pel braccio.
Uscendo, Guido vide da una parte un tavolino con delle bottiglie, dei bicchieri, delle carte sparse.
Balestra lo ricondusse nella prima stanza.
— Ora l’accusatore proporrà le sue difficoltà, se ce ne sono, per la tua ammissione; poi la tua ammissione ti sarà notificata da me, con l’incarico che ti si destina.
— Quando?
— Fra una mezz’ora; tu puoi aspettar qui: queste buone ragazze ti faranno compagnia, vero?
Le due che giocavano alzarono il viso e fecero a Guido un ghigno frettoloso.
Balestra soggiunse ridendo:
— Non è mica necessario che tu stia compunto: noi siamo chiesa militante e non si è tenuti a un’austerità rigorosa.
Poi rientrò nel corridoio.

Le Tigri di Mompracem

Ragazzi per Sempre | Avventura

Aaah! orrendo errore: Le Tigri di Mompracem viene prima dei Pirati della Malesia. Abbiamo sbagliato l’ordine di pubbblicazione!
E’ il terribile karma delle Tigri!
Lo sapete che con questo romanzo inizia la triste storia di Emilio Salgari? Con Le Tigri di Mompracem Salgari divenne finalmente famoso … e si ritrovò, per sempre, costretto a scrivere un numero costante di pagine al giorno, avendo appena di che mantenere la famiglia. Durò 28 anni, scrisse 88 libri, finché un giorno non ne poté veramente più e, come in un libro scritto male, si suicidò facendo harakiri. Per davvero: si sventrò alla maniera dei samurai, col rasoio. Incazzatissimo.
Nelle lettere, lasciò scuse verso i figli e insulti verso gli editori. E’ il karma! è il karma!

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All’indomani qualche ora dopo che il sole era sorto, Sandokan usciva dalla capanna, pronto a compiere l’ardita impresa.
Era abbigliato da guerra: aveva calzato lunghi stivali di pelle rossa, il suo colore favorito, aveva indossata una splendida casacca di velluto pure rosso, adorna di ricami e di frange e larghi calzoni di seta azzurra. Ad armacollo portava una ricca carabina indiana rabescata e dal lungo tiro: alla cintura una pesante scimitarra dall’impugnatura di oro massiccio e di dietro un kriss, quel pugnale dalla lama serpeggiante e avvelenata, tanto caro alle popolazioni della Malesia.
Si arrestò un momento sull’orlo della gran rupe, scorrendo col suo sguardo d’aquila la superficie del mare, diventata liscia e tersa come uno specchio, e lo fermò verso l’oriente.
– È là – mormorò egli, dopo alcuni istanti di contemplazione. – Strano destino, che mi spingi laggiù, dimmi se mi sarai fatale! Dimmi se quella donna dagli occhi azzurri e dai capelli d’oro che ogni notte conturba i miei sogni, sarà la mia perdita!…
Scosse il capo come se volesse scacciare un cattivo pensiero, poi a lenti passi discese una stretta scaletta aperta nella roccia e che conduceva alla spiaggia. Un uomo lo attendeva al basso: era Yanez.
– Tutto è pronto – disse questi. – Ho fatto preparare i due migliori legni della nostra flotta, rinforzandoli con due grosse spingarde.
– E gli uomini?
– Tutte le bande sono schierate sulla spiaggia, coi loro capi. Non avrai che da scegliere le migliori.
– Grazie, Yanez.
– Non ringraziarmi, Sandokan; forse ho preparato la tua rovina.
– Non temere, fratello mio; le palle hanno paura di me.
– Sii prudente, molto prudente.
– Lo sarò e ti prometto che, appena avrò veduta quella fanciulla ritornerò qui.
– Dannata femmina! Strangolerei quel pirata che per primo la vide e ne parlò a te.
– Vieni, Yanez.

I Pirati della Malesia

Ragazzi per Sempre | Avventura

Kammamuri va a liberare il suo padrone Tremal-Naik e … naufraga a Mompracem dove incontra Sandokan e Yanez. Così la Jungla confluisce nei Pirati, e Inizia il ciclo d’avventura più appassionante di tutto l’800.
Diciamo subito che – a meno che non raggiungiamo il milione di richieste – non avremo la dedizione di pubblicare tutti i 13 libri che compongono la serie, ma almeno i primi sì.
W Sandokan!

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Il mare a poco a poco si era calmato. Solamente attorno ai frangenti spumeggiava e muggiva, sollevandosi in larghe ondate.
Il praho, guidato da quegli abili ed intrepidi marinai, superò le scogliere, balzando e rimbalzando sui cavalloni come una palla elastica e s’allontanò con fantastica rapidità lasciandosi dietro una scia candidissima, in mezzo alla quale giocherellavano mostruosi pesci-cani.
In capo a dieci minuti raggiunse la punta estrema dell’isola, la girò senza rallentare la sua velocità, e navigò verso un’ampia baia che aprivasi dinanzi a un grazioso villaggio. Composto di venti e più solidissime capanne, difeso da una triplice linea di trincee armate di grossi cannoni e da numerosissime spingarde, da alte palizzate e da profondi fossati irti di aguzze punte di ferro.
Un centinaio di malesi semi-nudi, ma tutti armati fino ai denti, uscirono dalle trincee e si slanciarono verso la spiaggia, mandando urla selvagge, agitando pazzamente kriss avvelenati, scimitarre, scuri, picche, carabine e pistole.
– Dove siamo? – chiese Kammamuri con inquietudine. – Nel nostro villaggio – rispose il portoghese. – È qui che abita la Tigre della Malesia? – Abita lassù, dove ondeggia quella bandiera rossa.
Il maharatto alzò il capo, e sulla cima di una gigantesca rupe che cadeva a picco sul mare, scorse una gran capanna difesa da parecchie palizzate, su cui si agitava maestosamente una grande bandiera rossa adorna d’una testa di tigre.
– Andremo lassù? – domandò con commozione. – Sì, amico – rispose Yanez. – Come mi riceverà? – Come si deve accogliere un coraggioso.
– La vergine della pagoda d’Oriente verrà con noi? – Per ora no. – Perché? – Perché quella donna somiglia a… S’interruppe. Una rapida commozione aveva alterato improvvisamente i suoi lineamenti e i suoi occhi si
inumidirono. Kammamuri se ne accorse. – Voi mi sembrate commosso, signor Yanez – disse. – T’inganni – rispose il portoghese, tirando a sé la ribolla per evitare la punta estrema di una scogliera che
riparava la baia. – Sbarchiamo, Kammamuri. Il praho si era arenato con la prua verso la costa. Il portoghese, Kammamuri, la pazza e i pirati sbarcarono. – Conducete questa donna nella migliore abitazione del villaggio – disse Yanez, additando ai pirati la pazza. – Le faranno del male? – domandò Kammamuri. – Nessuno ardirà toccarla – disse Yanez. – Le donne qui si rispettano forse più che in India ed in Europa. Vieni,
maharatto. Si diressero verso la gigantesca rupe e salirono una stretta scala scavata nel vivo masso, lungo la quale erano
scaglionate sentinelle armate di carabine e di scimitarre. – Perché tante precauzioni? – chiese Kammamuri. – Perché la Tigre della Malesia ha centomila nemici. – Non è amato dunque il capitano? – Noi lo idolatriamo, ma gli altri… Se tu sapessi, Kammamuri, come gl’inglesi lo odiano. Eccoci giunti: non
temere nulla. Infatti giungevano allora dinanzi alla gran capanna, difesa pur questa da trincee, da gabbionate, da fossati, da
cannoni, da mortai e da spingarde del secolo precedente. Il portoghese spinse prudentemente una grossa porta di legno di teck, capace di resistere al cannone, e
introdusse Kammamuri in una stanza tappezzata di seta rossa, ingombra di carabine d’Europa, di scuri, di kriss malesi, di yatagan turchi, di pugnali, di bottiglie, di pizzi, di stoffe, di maioliche della Cina e del Giappone, di mucchi d’oro, di verghe d’argento, di vasi riboccanti di perle e di diamanti.
Nel mezzo, semisdraiato su di un ricco tappeto di Persia, Kammamuri scorse un uomo dal volto abbronzato, vestito sfarzosamente all’orientale, con vesti di seta trapunta in oro e lunghi stivali di pelle pure rossa a punta rialzata.
Quell’individuo non dimostrava più di trentaquattro o trentacinque anni. Era alto di statura, stupendamente sviluppato, con una testa superba, una capigliatura folta, ricciuta, nera come l’ala di un corvo, che gli cadeva in pittoresco disordine sulle robuste spalle.
Alta era la sua fronte, scintillante lo sguardo, sottili le labbra, atteggiate ad un sorriso indefinibile, magnifica la barba che dava ai suoi lineamenti un aspetto fiero che incuteva ad un tempo rispetto e paura.
Nell’insieme, s’indovinava che quell’uomo possedeva la ferocia di una tigre, l’agilità di una scimmia e la forza di un gigante.
Appena vide entrare i due personaggi, con uno scatto si alzò a sedere, fissando su di loro uno di quegli sguardi che penetrano nel più profondo dei cuori.
– Che cosa mi rechi? – chiese con voce metallica, vibrante. – La vittoria, innanzi tutto – rispose il portoghese. – Ti conduco però un prigioniero. –
La fronte di quell’uomo s’oscurò. – È forse quell’indiano l’individuo che tu hai risparmiato? – domandò egli, dopo qualche istante di silenzio.
– Sì, Sandokan. Ti dispiace, forse? – Tu sai che rispetto i tuoi capricci, amico mio. – Lo so, Tigre della Malesia. – E che cosa vuole quell’uomo? – Diventare un tigrotto. L’ho veduto battersi, è un eroe. Lo sguardo della Tigre divenne lampeggiante. Le rughe che solcavano la sua fronte scomparvero come le nubi
sotto un vigoroso colpo di vento. – Avvicinati – disse all’indiano.
Kammamuri, ancora sorpreso di trovarsi dinanzi al leggendario pirata che per tanti anni aveva fatto tremare i popoli della Malesia, si fece innanzi.
– Il tuo nome? – chiese la Tigre. – Kammamuri. – Sei? – Maharatto.
– Un figlio di eroi dunque? – Dite il vero, Tigre della Malesia – disse l’indiano con orgoglio. – Perché hai lasciato il tuo paese? – Per recarmi a Sarawak. – Da quel cane di James Brooke? – chiese la Tigre con accento d’odio. – Non so chi sia questo James Brooke. – Meglio così. Chi hai a Sarawak per recarti laggiù? – Il mio padrone. – Cosa fa? È soldato del rajah, forse? – No, è prigioniero del rajah. – Prigioniero? E perché? L’indiano non rispose. – Parla – disse brevemente il pirata. – Voglio sapere tutto. – Avrete la pazienza di ascoltarmi? La storia è lunga quanto terribile. – Le storie terribili e sanguinose piacciono alla Tigre; siedi e narra.

Il Ventre di Napoli

Pensiero Fossile | Prima della Storia

Matilde Serao era sempre stata decisamente bruttina, anche da giovane. Tozza e sgraziata, rideva in maniera grossolana e aveva l’aria troppo semplice per i salotti eleganti e in più era anche ragionevolmente priva di mezzi. Però Matilde scrive. Collabora con decine di riviste, fonda giornali e diventa il primo direttore donna, in un’Italia in cui le donne non avevano alcun diritto. Così, a metà della sua vita, nonostante l’aspetto ordinario e una certa bonomia di carattere, è già diventata un’interlocutrice primaria della vita politica e sociale italiana.
Il Ventre di Napoli nasce come una lettera a De Pretis, allora capo del governo. Una cronaca che vuole mostrare l’altra Napoli, quella vera e fuori dalle cronache del colore locale. Quello che ne esce è un’affresco indimenticabile e terribilmente moderno.

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È vero, infatti: la pizza rientra nella larga categoria dei commestibili che costano un soldo, e di cui è formata la colazione o il pranzo, di moltissima parte del popolo napoletano.
Il pizzaiuolo che ha bottega, nella notte, fa un gran numero di queste schiacciate rotonde, di una pasta densa, che si brucia, ma non si cuoce, cariche di pomidoro quasi crudo, di aglio, di pepe, di origano: queste pizze in tanti settori da un soldo, sono affidate a un garzone, che le va a vendere in qualche angolo di strada, sovra un banchetto ambulante e lì resta quasi tutto il giorno, con questi settori di pizza che si gelano al freddo, che si ingialliscono al sole, mangiati dalle mosche.
Vi sono anche delle fette di due centesimi, pei bimbi che vanno a scuola; quando la provvista è finita, il pizzaiuolo la rifornisce, sino a notte.
Vi sono anche, per la notte, dei garzoni che portano sulla testa un grande scudo convesso di stagno, entro cui stanno queste fette di pizza e girano pei vicoli e dànno un grido speciale, dicendo che la pizza ce l’hanno col pomidoro e con l’aglio, con la muzzarella e con le alici salate. Le povere donne sedute sullo scalino del basso, ne comprano e cenano, cioè pranzano, con questo soldo di pizza.

Con un soldo, la scelta è abbastanza varia, pel pranzo del popolo napoletano. Dal friggitore si ha un cartoccetto di pesciolini che si chiamano fragaglia e che sono il fondo del paniere dei pescivendoli: dallo stesso friggitore si hanno per un soldo, quattro o cinque panzarotti, vale a dire delle frittelline in cui vi è un pezzetto di carciofo, quando niuno vuol più saperne di carciofi, o un torsolino di cavolo, o un frammentino di alici.
Per un soldo, una vecchia dà nove castagne allesse, denudate della prima buccia e nuotanti in un succo rossastro: in questo brodo il popolo napoletano
vi bagna il pane e mangia le castagne, come seconda pietanza; per un soldo, un’altra vecchia, che si trascina dietro un calderottino in un carroccio, dà due spighe di granturco bollite.
Dall’oste, per un soldo, si può comperare una porzione di scapece; la scapece è fatta di zucchetti o melanzane fritte nell’olio e poi condite con aceto, pepe, origano, formaggio, pomidoro, ed è esposta in istrada, in un grande vaso profondo, in cui sta intasata, come una conserva e da cui si taglia con un cucchiaio. Il popolo napoletano porta il suo tozzo di pane, lo divide per metà, e l’oste vi versa sopra la scapece.
Dall’oste, sempre per un soldo, si compera la spiritosa: la spiritosa è fatta di fette di pastinache gialle, cotte nell’acqua e poi messe in una salsa forte di aceto, pepe, origano e peperoni. L’oste sta sulla porta e grida: addorosa, addorosa, ‘a spiritosa! Come è naturale, tutta questa roba è condita in modo piccantissimo, tanto da soddisfare il più atonizzato palato meridionale.

Appena ha due soldi, il popolo napoletano compra un piatto di maccheroni cotti e conditi; tutte le strade dei quartieri popolari, hanno una di queste osterie che installano all’aria aperta le loro caldaie, dove i maccheroni bollono sempre, i tegami dove bolle il sugo di pomidoro, le montagne di cacio grattato, un cacio piccante che viene da Cotrone. Anzi tutto, quest’apparato è molto pittoresco, e dei pittori lo hanno dipinto, ed è stato da essi reso lindo e quasi elegante con l’oste che sembra un pastorello di Watteau; e nella collezione di fotografie napoletane, che gl’inglesi comprano, accanto alla monaca di casa, al ladruncolo di fazzoletti, alla famiglia di pidocchiosi, vi è anche il banco del maccaronaro.
Questi maccheroni si vendono a piattelli di due e di tre soldi; e il popolo napoletano li chiama brevemente, dal loro prezzo: nu doie e nu tre. La porzione è piccola e il compratore litiga con l’oste, perchè vuole un po’ più di sugo, un po’ più di formaggio e un po’ più di maccheroni.
Con due soldi si compera un pezzo di polipo bollito nell’acqua di mare, condito con peperone fortissimo: questo commercio lo fanno le donne, nella strada, con un focolaretto e una piccola pignatta; con due soldi di maruzze, si hanno le lumache, il brodo e anche un biscotto intriso nel brodo: per due soldi l’oste, da una grande padella dove friggono confusamente ritagli di grasso di maiale e pezzi di coratella, cipolline, e frammenti di seppia, cava una grossa cucchiaiata di questa miscela e la depone sul pane del compratore, badando bene a che l’unto caldo e bruno non coli per terra, che vada tutto sulla mollica, perchè il compratore ci tiene.

Appena ha tre soldi al giorno per pranzare, il buon popolo napoletano, che è corroso dalla nostalgia familiare, non va più dall’oste per comperare i commestibili cotti, pranza a casa sua, per terra, sulla soglia del basso, o sopra una sedia sfiancata.

Con quattro soldi si compone una grande insalata di pomidori crudi verdastri e di cipolle; o un’insalata di patate cotte e di barbabietole, o un’insalata di broccoli di rape; o un’insalata di citrioli freschi.
La gente agiata, quella che può disporre di otto soldi al giorno, mangia dei grandi piatti di minestra verde, indivia, foglie di cavolo, cicoria, o tutte queste erbe insieme, la cosidetta minestra maritata; o una minestra, quando ne è tempo, di zucca gialla con molto pepe; o una minestra di fagiolini verdi, conditi col pomidoro; o una minestra di patate cotte nel pomidoro.
Ma per lo più compra un rotolo di maccheroni, una pasta nerastra, e di tutte le misure e di tutte le grossezze, che è il raccogliticcio, il fondiccio confuso di tutti i cartoni di pasta, e che si chiama efficacemente monnezzaglia: e la condisce con pomidoro e formaggio.

I Misteri della Jungla Nera

Ragazzi per Sempre | Avventura

Chi si ricorda ancora della Dea Kali e dei suoi Thugs? Non erano schifidi angiolotti paffuti prodotti a Bolzano, ma mortali killer che strangolavano con un laccio di seta, rapivano fanciulle e adoravano la loro mortalissima dea dalle molte braccia.
Leggete questo libro. Ucciderete un soprammobile kitsch! E speriamo che l’anima di Salgari non legga mai questa recensione.

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L’indiano emise un acutissimo grido e sulla sua faccia si dipinse una viva angoscia. A quel grido, dalla capanna uscì, correndo, un secondo indiano. Era questi di statura assai più bassa dell’addormentato ed assai esile, con gambe e braccia che somigliavano a bastoni nodosi ricoperti di cuoio.
Il tipo fierissimo, lo sguardo fosco, il corto languti che coprivagli i fianchi, le buccole che pendevano dai suoi orecchi, tutto insomma lo davano a conoscere a prima vista per un maharatto, gente bellicosa dell’India occidentale.
– Povero padrone, – mormorò egli, guardando l’addormentato. – Chi sa qual terribile sogno turba il suo sonno.
Riattizzò il fuoco, poi sedette accanto al padrone, agitando dolcemente un dugbah di bellissime penne di pavone.
– Quale mistero, – ripigliò l’addormentato con voce rotta. – Mi pare di vedere delle macchie di sangue!… Dolce visione fuggi di là… t’insanguinerai. Perché tutto quel rosso?… Perché tutti quei lacci? Si vuole strangolare qualcuno adunque? Quale mistero?
– Cosa dice? – si domandò il maharatto, sorpreso.- Sangue, visioni, lacci?… Quale sogno!
Ad un tratto l’addormentato si scosse; sbarrò gli occhi, scintillanti come due neri diamanti e s’alzò a sedere.
– No!… No!… – esclamò egli con voce rauca. – Non voglio!… Il maharatto lo guardò con occhi compassionevoli.
– Padrone, – mormorò egli. – Cos’hai? L’indiano parve che ritornasse in sé. Chiuse gli occhi, poi tornò a riaprirli, fissando in volto il maharatto.
– Ah! sei tu, Kammamuri! – esclamò.
– Sì, padrone.
– Cosa fai tu qui?
– Veglio su di te e scaccio le zanzare.
Tremal-Naik aspirò fortemente l’aria fresca della notte, passandosi più volte le mani sulla fronte.
– Dove sono Hurti ed Aghur! – chiese, dopo qualche istante di silenzio.
– Nella jungla. Ieri sera hanno scoperto le traccie di una gran tigre e questa mane si sono recati a cacciarla.
– Ah! – fe’ sordamente Tremal-Naik.
La sua fronte si aggrottò e un profondo sospiro che pareva un ruggito soffocato, venne a morirgli sulle aride labbra.
– Cos’hai padrone? – chiese Kammamuri. – Tu stai male.
– Non è vero.
– Eppure dormendo ti lagnavi.
– Io?…
– Sì, padrone, tu parlavi di strane visioni.
Un amaro sorriso sfiorò le labbra del cacciatore di serpenti.
– Soffro, Kammamuri, – diss’egli con rabbia. – Oh! ma soffro molto.
– Lo so, padrone.
– Come lo sai tu?
– Da quindici giorni io ti osservo e vedo sulla tua fronte delle profonde rughe, e sei malinconico, taciturno. Una volta tu non eri così triste.
– È vero, Kammamuri.
– Qual dolore può affliggere il mio padrone? Saresti forse stanco di vivere nella jungla?
– Non dirlo, Kammamuri. È qui, fra questi deserti di spine, fra queste paludi, sulla terra delle tigri e dei serpenti, che io son nato e cresciuto e qui, nella mia cara jungla morirò.
– È una donna, una visione, un fantasma!
– Una donna! – esclamò Kammamuri sorpreso. – Una donna hai detto?
Tremal-Naik crollò il capo in senso affermativo e si strinse fortemente la fronte fra le mani, come se volesse soffocare qualche tetro pensiero. Per parecchi minuti fra loro due regnò un funebre silenzio, appena rotto dal gorgoglio della
fiumana che rompevasi contro le rive e dai gemiti del vento che accarezzava l’immensa jungla.
– Ma dove hai veduto questa donna? – chiese alfine Kammamuri.- Dove mai, ché la jungla non ha che delle tigri per abitanti?
– L’ho veduta nella jungla, Kammamuri, – disse Tremal-Naik con voce cupa. – Era una sera, oh non la scorderò mai, quella sera, Kammamuri! Io cercavo i serpenti sulle rive d’un ruscello, laggiù, proprio nel più folto dei bambù, quando a venti passi da me, in mezzo ad una macchia di mussenda, dalle foglie sanguigne, apparve una visione, una donna bella, raggiante, superba. Non ho mai creduto, Kammamuri, che esistesse sulla terra una creatura così bella, né che gli dei del cielo fossero capaci di crearla.
Aveva neri e vivi gli occhi, candidi i denti, bruna la pelle e dai suoi capelli d’un castagno cupo, ondeggianti sulle spalle, ne veniva un dolce profumo che inebbriava i sensi.
Ella mi guardò, emise un gemito lungo, straziante, poi scomparve al mio sguardo. Mi sentii incapace di muovermi e rimasi là, colle braccia tese innanzi, trasognato. Quando tornai in me e mi misi a cercarla, la notte era scesa sulla jungla, e non vidi né udii più nulla.
Chi era quella apparizione? Una donna od uno spirito celeste? Ancora lo ignoro. – TremalNaik si tacque. Kammamuri notò che egli tremava sì forte da temere che avesse la febbre
– Quella visione mi fu fatale, – ripigliò Tremal-Naik, con rabbia.- Da quella sera si operò in me uno strano cangiamento; mi parve di essere diventato un altro uomo; e che qui, nel cuore, si sviluppasse una terribile fiamma!
Si direbbe che quell’apparizione mi ha stregato. Se sono nella jungla, me la vedo danzare dinanzi agli occhi; se sono sul fiume la vedo nuotare dinanzi la prua del mio battello; penso e il mio pensiero corre a lei; dormo e in sogno mi appare sempre lei. Mi sembra di essere pazzo.
– Mi spaventi, padrone, – disse Kammamuri, girando all’intorno uno sguardo pauroso. – Chi era quella bella creatura?
– L’ignoro, Kammamuri. Ma era bella oh sì! molto bella! – esclamò Tremal-Naik con accento appassionato.
– Forse uno spirito!
– Forse.

Sonetti Lussuriosi e Dubbi Amorosi

Semper |

E’ chiaro che il politically correct ci fa obbrobrio, e quindi non potevamo che pubblicare Pietro Aretino.
Ma voi li avete mai letti Sonetti e Dubbi? Sono moooolto peggio di quel che pensate, così pessimi da meritarsi di passare alla storia per il loro pessimismo.
E quindi nei Semper

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Marte, maledettissimo poltrone!
Così sotto una donna non si reca,
e non si fotte Venere alla cieca,
con assai furia e poca discrezione.

– Io non son Marte, io son Hercol Rangone,
e fotto qui che sete Angela Greca;
e se ci fosse qui la mia ribeca,
vi sonerei fottendo una canzone.

E voi, Signora, mia dolce consorte,
su la potta ballar faresti il cazzo,
menando il culo in su, spingendo forte.

– Signor sì, che con voi, fottendo, sguazzo,
ma temo Amor che non mi dia la morte,
colle vostr’armi, essendo putto e pazzo.

– Cupido è mio ragazzo
e vostro figlio, e guarda l’arme mia
per sacrarle alla dea Poltroneria.

Jolanda la Figlia del Corsaro Nero

Ragazzi per Sempre | Avventura

Tranquilli il Corsaro Nero è morto. Dopo aver finalmente ritrovato la sua amata, lei rimane incinta e – naturalmente- muore di parto. E lui finalmente smette di soffrire lasciandosi uccidere sulle alpi. Amen. Qui e’ di scena la figlia, molto piu’ vivace e simpatica del padre, assieme a Morgan l’ex secondo del Corsaro, per altro vero personaggio storico. Assieme alla riconquista del patrimonio del Corsaro e dei Wan Stiller.
Buona Befana!

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La notte, sulle rive di quella deserta laguna, al margine di un bosco vicino infestato probabilmente da belve affamate, s’annunciava terribile per la valorosa fanciulla, tanto più che Morgan, ripreso dalla febbre, che sotto quei climi assume rapidamente dei sintomi gravissimi, ricominciava a vaneggiare.

Si era accoccolata sotto la piccola tettoia, presso il ferito e dietro ai due fuochi che mandavano bagliori sinistri sulle piante vicine. Si era messa dinanzi la spada e la pistola e spiava ansiosamente il margine della foresta, dove udiva, di quando in quando, echeggiare il lugubre ululato del giaguaro.

Mille rumori cominciavano ad alzarsi, sia sugli isolotti e sui banchi della laguna ingombri di legni cannone e di manghi, sia fra le folte macchie che proiettavano le loro cupe ombre sulla riva.

Erano gracidii di batraci o di quegli enormi rospi chiamati pipa, sibili di rettili acquatici e terrestri, urla acute che si ripercuotevano senza posa sotto le vôlte di verzura, mandate dalle scimmie rosse e dai cebi, a cui facevano di quando in quando eco gli u-uh! rauchi dei coguari e dei maracaya.

Jolanda si sforzava di mostrarsi tranquilla, tuttavia ad ogni ululato del giaguaro si stringeva presso Morgan e rabbrividiva, credendo sempre di vedersi dinanzi quei formidabili predatori che la fame doveva, presto o tardi, spingere verso il piccolo accampamento.

«Come finirà questa notte?» si chiedeva con angoscia. «Avessi almeno delle munizioni, mentre non ho che un solo colpo da sparare e che può anche andare a vuoto.»

Peter Pan nei Giardini di Kensington

Ragazzi per Sempre | Racconti

Beh! in realtà Barrie scrive più di un libro di Peter Pan, e questo è quello senza Wendy in cui Peter, piccolo, abita tra le fate nei Giardini di Kensington.
Certo, il libro è scritto prevedendo dei bambini che ascoltano, ma, in mancanza di materia prima, si possono ottenere buoni risultati anche col fidanzato/a mentre fuori nevica.
Oppure al gatto!

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MAIMIE si sentiva addosso una gran timidezza, ma Peter non sapeva neppure che cosa fosse timidezza.
— Spero che abbia passato bene la notte — egli s’informò gentilmente.
— Oh, sì, grazie — essa rispose, — sono stata così comoda e calda. Ma Lei — e, così dicendo, con poco tatto accennava dello sguardo alla sua nudità — ma Lei non sente freddo?
Freddo era un’altra parola che Peter aveva dimenticato, e perciò rispose:
— Io non credo, ma potrei sbagliarmi: Lei vede che io sono un pochino ignorante. Io non sono propriamente un bambino: Salomone dice che io sono un Forse-che-sì-forse-che-no.
— Cosicché questo è il nome che Le vien dato — disse Maimie con aria pensierosa.
— Questo non è il mio nome — egli spiegò; — il mio nome è Peter Pan.
— Sì, senza dubbio — essa disse, — lo so, ogni persona lo sa.
Voi non vi potete immaginare quanto piacere facesse a Peter l’apprendere che tutte le persone al di là dei cancelli sapevano di lui. Egli pregò Maimie di dirgli che cosa esse sapevano e che cosa dicevano, e Maimie soddisfece il suo desiderio. Frattanto si erano seduti sopra un albero caduto; Peter ne aveva sgombrato dalla neve un tratto per Maimie, ma quanto a sé s’era assiso sopra un punto non sgombro.
— Si faccia più accosto — disse Maimie.
— Che cosa vuol dire? — egli domandò. Allora essa glielo mostrò ed egli lo fece.
Dunque, essi chiacchierarono insieme ed egli trovò che la gente sapeva una gran quantità di cose intorno a lui, ma non tutto, non che era tornato dalla mamma e aveva trovato la finestra sbarrata, per esempio, e di ciò non disse nulla a Maimie, perché la cosa ancora lo umiliava.
— Sa la gente che io giuoco esattamente come i veri bambini? — domandò con orgoglio.
— Oh, Maimie, raccontaglielo, ti prego! — Essi avevano ormai fatto amicizia e deciso di darsi del tu.
Ma quando egli le mostrò come giocava, facendo galleggiare e guidando pel manico il suo bicchierino di latta sul Lago Rotondo, e così via, essa restò semplicemente inorridita.
— Tutte le tue maniere di giocare — osservò guardandolo con due grandi occhi pieni di stupore — sono del tutto, del tutto sbagliate, e non rassomigliano
affatto a come giuocano i bimbi. —
Il piccolo Peter emise un piccolo lamento a sentir questo, e, per la prima volta da non so quanto tempo, gli corsero giù delle lacrime per le gote. Maimie provò molta pena per lui e gli prestò il suo fazzoletto, ma egli non sapeva affatto che cosa farne, cosicché essa dovette mostrarglielo, vale a dire che si asciugò gli occhi, e poi gli porse il fazzoletto di nuovo, dicendo: “Ora fallo tu”; ma Peter, invece di asciugare i suoi propri occhi, asciugò quelli di lei, ed essa allora pensò che era meglio far finta di nulla e lasciargli credere che aveva inteso giusto: Sentiva tanta pietà per lui che non potè trattenersi dal dirgli: “Se vuoi, ti do un bacio”; ma, sebbene un tempo egli avesse saputo che cosa sono i baci, oramai lo aveva dimenticato da un pezzo, cosicché rispose: “Grazie”, e stese la mano, credendo che si fosse offerta di metterglici dentro alcunché. Questo fu un gran colpo per lei, ma essa tuttavia sentì che non poteva spiegargli meglio la cosa senza farlo vergognare, e perciò con delicatezza squisita gli pose in mano o, meglio, infilò in dito un piccolo ditale che per caso si trovava in una delle sue tasche, dandogli a credere che quello fosse un bacio. Povero piccino! Egli le credette ciecamente e ancor oggi per ricordo porta in dito il piccolo ditale, nonostante che qualche volta si sia domandato con meraviglia perché mai i veri
bimbi s’infilino in dito un oggetto così impaccioso. Ma voi, come Maimie, dovete mostrarvi indulgenti verso la sua ignoranza: sebbene fosse sempre tanto piccino, pure in realtà erano passati anni e anni dacché per l’ultima volta aveva rivisto sua madre, e il bambino da cui era stato sostituito doveva essere ormai un bel pezzo di uomo con tanto di baffi: salvo che non li portasse, per seguire la moda.
Non dovete tuttavia pensare che Peter Pan fosse un bimbo piuttosto da compiangere che da ammirare; se Maimie cominciò col pensarlo, presto trovò che si era di molto sbagliata. I suoi occhi brillarono d’ammirazione quando egli le raccontò delle sue avventure, e specialmente del come egli passasse continuamente dall’isola ai giardini e dai giardini nell’isola dentro il suo nido di tordo.
— Com’è romantico tutto ciò! — esclamò essa, ma quella era un’altra parola sconosciuta per Peter, e il povero piccino abbassò mesta mente la testa credendo che essa lo burlasse.
— Tony non lo farebbe, non è vero? — domandò con grande umiltà.
— Oh no, mai, mai! — essa rispose con convinzione; — è troppo pauroso!
— Come si fa ad esser paurosi? — chiese subito Peter con un ardore di desiderio che Maimie scambiò per isdegno. Egli s’immaginava che l’esserlo fosse una cosa assai bella. — Tu mi dovresti insegnare come si fa, se sei buona, Maimie!
— Io non credo che nessuno sia buono di insegnartelo — Maimie rispose con adorazione, ma Peter pensò che lo credesse troppo stupido. Essa gli aveva già
parlato di Tony e adesso gli raccontò delle malignità che lei immaginava per ispaventarlo la notte (la signorina sapeva benissimo che erano delle malignità),
ma Peter fraintese il senso delle sue parole ed esclamò:
— Oh quanto bramerei d’avere il coraggio di Tony! Ciò finì coll’irritarla.
— Tu hai mille volte più coraggio di Tony — proruppe spazientita; — anzi, io non conosco nessun bambino che abbia tanto coraggio quanto te. —
Egli non poteva credere che essa lo pensasse davvero, ma, quando Maimie glielo ebbe solennemente assicurato, non potè trattenere un grido di gioia.
— E se desideri molto di darmi un bacio — Maimie aggiunse, — puoi benissimo darmelo.
Con molta riluttanza Peter cominciò a sfilarsi dal dito il piccolo ditale. Egli credeva che essa lo rivolesse addietro.
— Non volevo dire un bacio — essa s’affrettò a correggere, — ma un ditale.
— Che cos’è un ditale? — chiese Peter.
— È questo — essa disse, e lo baciò.
— Desidero davvero di darti un ditale — dichiarò Peter gravemente, e glielo dette. Anzi gliene dette una gran quantità, e poi una magnifica idea gli sorse nella mente.
— Maimie — disse, — ci vogliamo sposare?
Orbene, strano a dirsi, la medesima idea era venuta proprio nel medesimo istante in mente a Maimie.
— Volentieri — essa rispose, — ma ci sarà posto nella tua barca per due?
— Se ti stringi accanto a me, sì — egli si affrettò a dichiarare.
— Ma gli uccelli ne saranno contenti? —
Egli assicurò che gli uccelli sarebbero stati contentissimi di averla per ospite, sebbene io non sia convinto ch’egli lo sapesse di certa scienza, aggiungendo che del resto, siccome si era d’inverno, d’uccelli non ve n’erano molti.
— Senza dubbio però — egli dovette ammettere con un po’ d’esitazione — può darsi che ti chiedano le vesti.
Essa non accolse con punto piacere questa prospettiva.
— Le mie vesti? Oh no davvero! E per che farne, se è lecito?
— Essi hanno sempre in mente i loro nidi — egli spiegò a mo’ di difesa, — e ci sono certe parti del tuo abbigliamento — così dicendo passò sfiorando la mano sopra il pelo della cappottina — che ecciteranno molto i loro desiderii.
— Oh! ma non lo avranno davvero il mio pelo!— essa affermò bruscamente.
— S’intende — egli rispose, seguitando tuttavia ad accarezzarlo, — s’intende.
— Oh! Maimie! — esclamò a un tratto con estasi, — sai tu perché t’amo? Perché rassomigli un bel nido. —
Questo poi, non so come, la inquietò affatto.
— A me pare che tu parli più da uccello che da bimbo ora — osservò tirandosi addietro; e realmente egli aveva un non so che d’uccello nel suo aspetto. — Già, dopo tutto, non sei che un Forse-che-sì-forse-che-no. — Ma questo lo ferì tanto che essa aggiunse immediatamente: — Del resto, dev’essere una cosa deliziosa di esserlo.
— Vieni e diventa anche tu uno, allora, diletta Maimie — egli la implorò, e tutti e due si misero in cammino verso la barca, perché era ormai assai vicina l’ora della riapertura dei cancelli.
— Non rassomigli mica punto ad un nido, sai? — egli le susurrò strada facendo, per riparare allo sbaglio di prima.
— Ma io credo che dev’essere anzi carino di rassomigliare ad un nido — ribatté essa con lo spirito di contraddizione proprio delle donne.
— E, Peter mio caro, sebbene io non possa dare agli uccelli il mio pelo, non mi opporrò se vorranno costruirci in mezzo. Immaginati un nido nel mio bavero con i suoi piccoli uovi picchiettati dentro! Oh Peter, quanto ha da esser grazioso! —
Ma, come furono in vista della Serpentina, essa rabbrividì un pochino, e disse:
— Senza dubbio però io dovrò andare spesso a veder la mia mamma, molto spesso. Non è come se dicessi addio per sempre alla mia mamma, non è nient’affatto così.
— Oh certo che non è così! — la rassicurò Peter, ma nel suo cuore egli sapeva benissimo che invece era proprio così, e glielo avrebbe voluto anche dire, ma
tremava troppo di perderla. Era tanto innamorato di lei, sentiva che non avrebbe potuto vivere senza. “Col tempo dimenticherà sua madre e sarà felice con me” disse, per calmare la sua coscienza, a sé stesso, e, passato il braccio attorno alla vita della sua sposa, la trascinò innanzi dolcemente, fermandosi tuttavia per darle un bacio ogni tanto.

Panciatantra

Ragazzi per Sempre | Favole

Chiudiamo l’anno con poesia!
Un po’ Favole di Esopo, un po’ Mille e Una Notte, Panciatantra è un antico libro indiano di fiabe. Strepitosamente sconosciuto, poetico come solo le grandi favole sanno essere, interpretato quasi interamente da animali.
Insomma, quello che ci vuole per cominciare con serenità un anno che sarà certamente bellissimo!

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Viveva in un deserto un uccello a due becchi, il quale, appollaiatosi un giorno in una mangifera, ne andava spiccando e ingoiando i frutti succosi. Mentre con uno dei due becchi facea questo lavoro, l’altro becco, geloso, cominciò a lamentarsi, che non gli si desse il tempo di dare una beccata.

— O che ti lagni tu? — gli disse il becco compagno. — Che importa se tu od io s’ingolli i frutti, visto che abbiamo un solo stomaco e uno stesso ventre?
A questa risposta, il becco inoperoso pigliò cappello, e giurò di vendicarsi subito, ingoiando una ghianda dell’arboscello itera, che si trovava a tiro. L’ingoiò e morì sul colpo, perchè l’itera è un veleno sottile e potentissimo.

— Il disaccordo, come vedi, porta sempre alla rovina. E poi, non sai tu l’adagio: “Non bisogna mai viaggiar da soli nè presentarsi senza appoggio al cospetto dei re?…„
Non ti basta? vuoi ancora degli esempii, che ti provino i vantaggi della buona armonia e dei servigi scambievoli?… Ebbene stammi a sentire.

Gargantua e Pantagruel

Semper |

Avete mai letto il Gargantua?
C’è molta crudezza, violenza e un umorismo che fa uso delle funzioni corporali“, dice Wikipedia, con un tono da signorina scandalizzata.
Diciamo che, mentre da noi Ariosto componeva un grande poema cavalleresco, in Francia Rabelais inventava la gara di rutti: Potevamo perdercelo?
Insomma, se non l’avete letto è ovvio che ora lo leggerete. E se invece lo conoscete non potrete fare a meno di appropriavene.

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Come qualmente Gargantua nacque in maniera ben strana.

Mentr’essi così cianciavano di beveraggio, Gargamella cominciò a sentire i dolori. Grangola levatosi a sedere sull’erba, la consolava bravamente pensando fossero le doglie del parto; e le diceva che là stesa sull’erba sotto i salici, metterebbe in breve piè nuovi, onde nuovo coraggio le conveniva trovare per l’avvento del nuovo figliolo; e che se quel dolore era increscioso, aveva tuttavia il grande vantaggio d’esser breve, e la gioia che ne seguirebbe cancellerebbe ogni fastidio sgombrando fino il ricordo. Ciò è dimostrabile, dimostratissimo, diceva egli. Afferma infatti Nostro Signore nell’Evangelio: (Joannis XVI) “la donna nell’ora del parto ha tristezza; ma dopo il parto perde il
ricordo dell’angoscia”.

– Ah, rispose ella, ben dite; e preferisco sentire le parole dell’Evangelio e mi fan più prò che sentire la storia di santa Margherita o non so che altra bigotteria.
– Coratella di pecora! diceva egli, sbrigatevi con questo, che ben presto ne faremo un altro.
– Ah, la è comoda per voialtri uomini. Sì, poiché ci tenete, farò del mio meglio, ma piacesse a Dio che ve lo foste tagliato.
– Che cosa? disse Grangola.
– Non fate l’indiano, mi capite benissimo.
– Il membro? Dite il membro? Sangue di capra! Qua un coltello che v’accontento.
– Ah, no, per carità! L’ho detto, Dio perdoni, per burla, non date retta. Ma oggi avrò un bel da fare se Dio non mi aiuta, e tutto per quel bischeraccio vostro, che Dio l’abbia in gloria.
– Coraggio, coraggio! Lasciate fare ai quattro buoi davanti e non badate al resto e state tranquilla. Io me ne vado a bere ancora una sorsata. Se capitasse il male non sono lontano, date una voce e correrò.

Poco dopo ella cominciò a sospirare, a lamentarsi, a gridare. Subito accorsero levatrici da ogni parte, a branchi. E tastandola sotto sentirono pelle di poco buon odore e pensarono fosse il neonato: ma altro non era se non il fondamento che scappava per la mollificazione dell’intestino retto, o budello culare, come voi lo chiamate, dovuto alla grande spanciata di trippe che sopra abbiam detto.
Allora una sozza vecchiaccia della compagnia, che aveva reputazione di gran medichessa ed era là venuta settant’anni prima, da Brisepaille presso Saint Genou le somministrò un astringente sì orribile che tutte le membrane ne furono serrate e contratte per modo che a gran pena le avreste slargate tirando coi denti, cosa orribile a dirsi; come accadde al diavolo quella volta alla messa di San Martino, quando allungò a forza di denti la sua pergamena per notarvi tutte le chiacchiere di due megere.
L’inconveniente fece rilassare più sopra i cotiledoni della matrice e il neonato ne profittò per saltarvi su; entrò nella vena cava e arrampicandosi per il diaframma fin sopra le spalle, dove la detta vena si biforca in due, prese la strada a mancina e uscì fuori per l’orecchia sinistra.

Appena nato non strillò come gli altri: Mi, mi mi: ma gridava a gran voce: Bere, bere, bere! come invitando tutti quanti a bere, talché fu udito in ogni paese dai confini di Bevessi fino a Berrò.

Le Mille e una Notte

Ragazzi per Sempre | Favole

Mille anni fa qualcuno decise che era ora di scrivere il più bel libro di tutti i tempi. Per prima cosa cominciò a raccogliere tutte le storie più belle. Trovò storie moderne e antichissime, egiziane, persiane, iraniane, insomma, un po’ di tutto.
Ma poteva bastare? Sai che noia un’antologia ragionata della favola orientale? Così eran capaci tutti!
No! Doveva essere il libro più bello del mondo!
E qui ebbe un’intuizione fantastica e si mise a scrivere una favola lui stesso. E questa favola era piena di personaggi che raccontavano favole a loro volta, e le loro favole contenevano persone che raccontavano, e così via.
Adesso per sapere come finiva una storia dovevi iniziarne un’altra e cosi via fin che eri alla fine del libro.
Così nacque il libro più bello di tutti i tempi.

Buon Natale!

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Gran principe dei Genii noi siamo tre fratelli, questi due cani, ed io. Nostro padre lasciò morendo a ciascuno di noi mille zecchini. Con questa somma abbracciammo tutti e tre la stessa professione, e ci facemmo mercanti. Poco tempo dopo aver aperto bottega, mio fratello maggiore, uno di questi due cani, risolvette di viaggiare e di andar negoziando in paese straniero. Partì e rimase assente un anno. Al termine di questo tempo un povero, che mi parve cercar l’elemosina presentossi alla mia bottega, io gli dissi:
— Dio vi assista!
— E Dio vi assista ancor voi — egli mi rispose — è dunque possibile che non mi riconosciate più? Allora fissandolo con attenzione lo riconobbi.
— Ah! mio fratello — esclamai abbracciandolo — come avrei potuto riconoscervi in questo stato? Lo feci entrare in casa, gli domandai contezza de’suoi successi nel viaggio.
— Non mi fate questa domanda — mi disse — mirandomi vedete tutto.
Esaminai i miei registri di compra e vendita, e trovando che aveva raddoppiato il mio capitale, cioè che io era ricco di duemila zecchini, gliene donai la metà.
– Con questo, fratel mio, – gli dissi – potrete dimenticare la perdita fatta. – Egli accettò i mille zecchini con gioia, ristabilì i suoi affari, e vivemmo insieme, come eravamo vissuti prima.

Qualche tempo dopo, il mio secondo fratello, ch’è l’altro di questi due cani, partì egli pure ritornando dopo aver sciupato quanto possedeva. Lo feci rivestire, e come aveva cresciuto il mio capitale di altri mille zecchini, glieli donai. Rimise bottega, e continuò ad esercitare la sua professione.

Un giorno i miei due fratelli vennero a propormi di fare un viaggio e di andare a trafficare con essi. Rigettai da principio il loro progetto. Ma essi ritornarono tante volte ad importunarmi, che dopo avere per cinque anni resistito costantemente alle loro sollecitazioni, alfine mi vi arresi…
Quando bisognò fare i preparativi del viaggio e comperare le mercanzie di cui avevamo bisogno, si trovò ch’essi avevano mangiato tutto. Io non mossi loro il minimo rimprovero: e come il mio capitale era di seimila zecchini, ne divisi con essi la metà, dicendo loro:
— Fratelli, bisogna rischiare questi tremila zecchini e nascondere gli altri in qualche luogo sicuro.
Io diedi nuovamente mille zecchini a ciascuno di loro, ne tenni per me altrettanti, e nascosi le altre migliaia in un angolo della mia casa. Comprammo delle mercanzie del paese per trasportarle e negoziarle nel nostro.
Mentre eravamo pronti ad imbarcarci per il ritorno, incontrai sul lido del mare una donna meschinamente vestita. Essa mi si avvicinò, mi baciò la mano e mi pregò di torla per moglie e d’imbarcarla con me.
Io mi lasciai vincere. Le feci fare degli abiti convenevoli, e dopo averla sposata l’imbarcai con me e sciogliemmo le vele.

Durante la nostra navigazione, trovai sì belle qualità nella donna che aveva presa, ch’io l’amava ogni giorno di più. Intanto i miei fratelli, che non avevano fatti i loro affari così bene come me, ed erano gelosi della mia prosperità, mi portavano invidia. Il loro furore giunse fino a farli cospirare contro la mia vita.
Una notte, nel tempo che la mia sposa ed io dormivamo, ci gettarono nel mare.
Mia moglie era Fata, e per conseguenza Genio: dunque ella non si annegò. Per me è certo che senza il suo soccorso sarei morto: non appena caddi nell’acqua essa mi rilevò, e trasportommi in un’isola.

Quando fu giorno la Fata mi disse:
— Vedete, marito mio, che salvandovi la vita, non viho mal compensato del bene che mi avete fatto. Sappiate che io son Fata. Voi m’avete trattata generosamente, ed io son lieta di aver trovata l’occasione di mostrarvi la mia riconoscenza. Ma sono tanto irritata contro i vostri fratelli, che non sarò mai soddisfatta se non avrò tolto loro la vita …

La Regina dei Caraibi

Ragazzi per Sempre | Avventura

Corsaro Nero II° episoido.
Il bello delle serie è che quando uno comincia poi deve andare avanti. E quindi eccoci di nuovo alle prese con i nostri soliti eroi: Wan Stiller, Carmaux, Moko e il Corsaro Nero, sfigatissimo in amore come sempre. Però, questa volta, arriva un lieto fine da manuale.
Meno male che nel terzo episodio il Corsaro Nero è morto :)

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Depose la giovane, alzò violentemente la persiana e con un salto da tigre balzò prima sul davanzale, poi nella stanza, gridando con voce sibilante:

«A noi due, duca!»

La spada che stringeva si era tesa fra il vecchio e la marchesa, fiammeggiando sinistramente alla vivida luce delle candele.

Il duca, vedendo comparire il Corsaro Nero, aveva mandato un grido che tradiva ad un tempo la sorpresa e lo spavento, poi con una mossa repentina s’era accostato ad una sedia sulla quale trovavasi la sua spada.

«Voi!» aveva esclamato, impallidendo come un cencio lavato.

«Mi conoscete, duca?» chiese il Corsaro, con accento selvaggio.

Il vecchio non rispose: guardava il suo avversario cogli occhi smisuratamente dilatati, come se si vedesse dinanzi una spaventosa apparizione.

La marchesa di Bermejo si era pure alzata, guardando superbamente il Corsaro.

«Cosa vuol dire ciò, signore?» chiese con accento sdegnoso. «Chi siete voi che osate entrare, colla spada in pugno, nella casa della marchesa di Bermejo?… Credete forse che non abbia abbastanza servi per farvi gettare dalla finestra?… Uscite!»

«Il signor di Ventimiglia e di Roccanera è abituato ad uscire dalle porte e non già dalle finestre, signora, dovessi passare sul corpo di cento uomini» rispose fieramente il Corsaro.

«Il signor di Ventimiglia!… Il Corsaro Nero!…» balbettò la marchesa, rabbrividendo.

«Carmaux, amici, a me!» gridò il filibustiere.

I suoi tre marinai e Yara si erano precipitati nella stanza. Carmaux e Wan Stiller si erano subito slanciati verso le due porte per impedire al duca di fuggire ed ai servi di entrare.

La giovane indiana si era accostata al vecchio fiammingo, dicendogli con voce fremente:

«Ti ricordi di me, duca?…»

Un grido strozzato era sfuggito dalle labbra di Wan Guld.

«Yara!…»

«Sì, quella Yara che aveva giurato di vendicare un giorno la distruzione della sua tribù.»

«Cosa vieni a fare qui?» chiese il duca con ira mal frenata.

«Sono venuta per vederti morire.»

La Trovatella di Milano

RosaLimone | Milano

Finalmente un’altro RosaLimone!
Gli intrighi di Carolina Invernizio non hanno certo nulla da invidiare alle nostre novelas contemporanee. In più, però, hanno il fascino di essere ambientate (e quasi scritte) a ridosso dell’unica parte gloriosa del nostro passato. E di essere, a modo loro, certamente femministe.
Un rosa che ormai è una lettura impegnata!

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Nel 1848, diciotto anni prima della scena raccontata, allorchè il popolo milanese si sentì l’animo di scuotere il giogo austriaco, nelle gloriose cinque giornate, anche le donne presero parte alla sollevazione, mostrando come l’amore della libertà possa rendere anche i più deboli, audaci ed invitti.

Fra quelle che più si distinsero, vi fu la Luigia Battistotti maritata Sassi, la quale deposti gli abiti femminili, sotto le spoglie di fuciliere, corse nelle vie a cercare il pericolo, incoraggiando ovunque, colla sua presenza, i combattenti; la Giuseppina Lazzeroni, una bella giovinetta che seguì a Ponte Vetero il fratello e combattè intrepidamente al suo fianco, comunicando il suo ardore agli altri, facendo prodigi di valore; infine Annetta Durini, che fu compagna al marito nelle barricate di porta Tosa, ora Vittoria, dove il coraggioso popolano trovò la morte.

La moglie che se lo vide cadere ai piedi, non si abbandonò ad atti di dolore, di disperazione: inginocchiatasi, baciò con rispetto quella fronte crivellata di palle, tolse dal collo del morto una sciarpa inzuppata di sangue, che nascose in seno, poi sorse animosa, ricominciando a combattere.
L’idea di vendicare quel prode, che ella avea tanto amato, accrebbe la sua energia, la fece comparire come trasfigurata. Annetta Durini aveva oltrepassati i quarant’anni; ma la freschezza della carnagione, gli occhi scintillanti, i denti bianchissimi, i capelli folti e neri, la facevano apparire assai più giovine.

Indossava un abito corto, stretto ai fianchi opulenti, un corsaletto le cingeva il busto scultorio; portava il cappello all’italiana; al collo teneva un fazzoletto di seta negligentemente annodato, in mano la carabina, alla cintura un pugnale ed una pistola.
A Porta Tosa, ebbe il cappello portato via dalle palle nemiche, per aver difesa una famiglia, che stava per cadere in mano ai Croati; più tardi, mentre confortava un moribondo, fu ferita alla nuca. Tuttavia non si scompose e malgrado il sangue che le pioveva sul collo e sulle mani, continuò il suo pietoso ufficio.

Durante le cinque giornate, Annetta non posò mai le armi; ma allorquando gli Austriaci ebbero provato invano il ferro ed il fuoco contro la città protetta da un santo diritto; quando tanto peso di forza brutale, dovette cedere alla generosa audacia, all’eroismo dei prodi milanesi, che con tanto sangue pagavano la loro libertà; la coraggiosa popolana, affranta dalle fatiche, spossata da lungo digiuno, si ritrasse alla sua abitazione, in una di quelle poche case di Porta Tosa, che non erano state completamente devastate dalle fiamme e dal saccheggio. Per la prima volta, dopo tanti giorni di lotta, di energia, Annetta nell’entrare in quella casa fu assalita dallo scoraggiamento, da una muta disperazione.

Ormai ella avrebbe cercato invano nelle sue stanze il volto adorato del marito: non avrebbe più intesa la voce di lui, nè si sarebbero potuto rallegrare insieme della vittoria ottenuta. Di più non aveva un figlio che le ricordasse quelle care sembianze, un figlio in cui trasfondere tutto l’amore che aveva portato all’eroico defunto. Rimaneva sola al mondo.
Salì le scale a stento, sentendosi piegare le gambe, cogli occhi velati dalle lacrime. Ma ad un tratto ristette come sbalordita. Era giunta sul pianerottolo e dinanzi al suo uscio, stesa nel vano, eravi una bambina di forse due anni o poco più, di una bellezza angelica, vestita di bianco, ma tutta bruttata di sangue, immobile, cogli occhi chiusi, come se fosse morta.

Chi era? L’avevano uccisa su quella soglia? Vinto il primo moto di raccapriccio, Annetta sollevò la fanciullina nelle sue braccia, accostò il suo orecchio al cuore di lei e con un fremito di gioja indescrivibile, si accorse che batteva ancora.

– Vive, la salverò! – disse la popolana con mirabile espressione di entusiasmo, di risolutezza, dimenticando i proprii dolori in quella nuova opera di carità.

Annetta portò la fanciullina sul letto e si mise a svestirla delicatamente, per riscontrare se aveva qualche ferita sul tenero corpicino. Intanto non potè a meno di rimarcare la biancheria finissima, l’eleganza degli stivaletti, le calze di seta a trafori e sopratutto la colpì un bizzarro medaglione d’oro, che raffigurava una testa da morto, appeso ad una microscopica catenella pure
d’oro.
La popolana mise tutto da parte e constatato con piacere che su quel corpicino di una bianchezza nivea, non eravi la minima scalfittura, si adoperò a tutta possa per far rinvenire la bambina. Difatti questa non tardò ad agitarsi, ad aprire gli occhi, balbettando:

– Mamma, mamma.

Annetta fu assalita da una commozione straordinaria a quella vocina dolce, carezzante. Si chinò a baciare la bambina, che sorrise ripetendo:

– Mamma.

– Non sono io la tua mamma, cara, ma sento già di amarti come tale. Dimmi chi sei, come ti
chiami.

La bambina la fissava con due begli occhi di un azzurro profondo, dallo sguardo un po’ trasognato, smarrito. Balbettò alcune parole incomprensibili, poi si mise a piangere.
Alla popolana sorse l’idea che la fanciulletta potesse aver fame. Corse ad una madia, dove trovò ancora un pane assai duro, ne inzuppò alcune fette in un bicchiere di vino e gliele portò.
La bambina si mise a mangiare avidamente. Annetta l’imitò. Il sole brillava nella stanza riempiendola di calore, di allegrezza. Un senso di benessere infinito invadeva il cuore della popolana. Ebbe per un istante il pensiero di nascondere gelosamente quella piccina, conservarla per sè sola. Come avrebbe rallegrata la sua solitudine, riempito il suo cuore! Quanti baci, carezze, cure infinite, avrebbe avute per lei!
Ma quasi tosto provò un brivido di rimorso; quella creaturina doveva avere una madre, che forse in quell’istante la piangeva, la chiamava con grida disperate.

La popolana non poteva mentire al suo cuore: non pensò più alla propria felicità, ma grande d’abnegazione, consolandosi all’idea della gioja che avrebbe procurata a quella madre, si mise tosto a farne ricerca. Ma per quanto s’informasse, mettesse in moto vicini ed amici, non potè trovare alcuna traccia dei parenti di quella fanciullina, nè giunse mai a sapere da chi fosse stata posta sulla soglia del suo uscio e da chi provenisse quel sangue, dal quale aveva aspersi i candidi abitini.
La bambina non era in grado di dare spiegazioni: l’unica parola che uscisse chiara dai suoi rosei labbruzzi era quella di «mamma»

Annetta non ebbe allora più scrupoli di tenerla con sè e in memoria del suo Mario, l’adorato marito, la chiamò Maria, Gli anni passarono senza portare maggior luce sul mistero della trovatella e la popolana finì col non pensarci più e considerarla come una sua vera figlia.
Annetta aveva da parte un buon gruzzolo, perchè il mestiere d’armaiuolo esercitato dal marito gli aveva dati molti guadagni e permesso delle economie.
La popolana spese una parte di quel denaro per far istruire la fanciulla e quando Maria compì il quattordicesimo anno, secondo i calcoli fatti da Annetta, la mise presso una sua amica, una buona vedova, che aveva un negozio da guantaja, assai rinomato, sul Corso di Porta Vittoria, onde l’iniziasse al suo mestiere. E l’anno dopo, essendo la vedova improvvisamente morta, Annetta rilevò dagli eredi il
negozio, pagando tutto a pronti contanti e andando a stabilitisi definitivamente con Maria.

La giovinetta si faceva ogni giorno più bella e bisognava vedere con quanta grazia e sveltezza sapeva servire gli avventori e come teneva in ordine i libri di negozio.
La popolana, un po’ indebolita di forze, per una malattia alle gambe, sedeva abitualmente dietro al banco, contemplando come in estasi quella bella creatura, che aveva il potere di rianimarla, farla sorridere, sviare dalla sua mente un cumulo di tristi memorie.
Annetta aveva nascosto a Maria in qual modo era divenuta sua figlia, perchè l’avvenuto era svanito come un sogno dalla mente della fanciulla. Questa credeva la popolana sua madre ed i vincoli d’affetto che univano quelle due buone creature, si facevano ogni giorno più saldi.

A vent’anni, Maria si mostrava in tutto il pieno sviluppo della sua bellezza affascinante. Aveva avute parecchie richieste di matrimonio, che sempre rifiutò, dicendo di trovarsi troppo felice al fianco di sua madre per desiderare altra sorte. Non aveva ancora amato. Eppure nelle sue vene scorreva un sangue caldo, impetuoso, aveva la fantasia vivacissima e l’avventura di quella notte
colla maschera misteriosa, la gettò bruscamente in un mondo d’idee nuove per lei e perciò appunto
più pericolose.

Invano la bella guantaja cercò dormire: nell’ombra della stanza, vedeva sempre l’immagine dello sconosciuto, sentiva ancora sulle sue labbra il tocco bruciante delle labbra di lui.
L’alba la sorprese cogli occhioni spalancati, il viso pallido, abbattuto, le labbra frementi, che mormoravano quasi inconscie:

– Chi sarà mai? Lo rivedrò io ancora?

Storie proprio così

Ragazzi per Sempre | Favole

Voi lo sapete perchè l’elefante ha il naso lunghissimo, il cammello ha la gobba, il Leopardo ha le macchie e come fu scritta la prima lettera?
Certo che lo sapete! Ma solo perché qualcuno vi ha letto questo libro quando eravate piccoli.. nel lettone!
E adesso tocca a voi perpetuare la conoscenza.

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Nei tempi antichi l’Elefante non aveva proboscide, ma un naso grosso come una scarpa, poco mobile e niente affatto prensile.

Ma vi fu un Elefante nuovo – un piccolo d’Elefante – che, pieno d’insaziabile curiosità, faceva continuamente un mondo di domande. E viveva in Africa, e riempiva tutta l’Africa della sua insaziabile curiosità. Domandava a suo zio lo Struzzo, perchè le penne della coda gli spuntassero così, e zio Struzzo lo batteva con la zampa dura dura; domandava a sua zia la Giraffa perchè avesse la pelle macchiettata, e zia Giraffa lo batteva con lo zoccolo duro duro. E ancora era pieno d’insaziabile curiosità. Domandava a suo zio l’Ippopotamo, perchè avesse gli occhi rossi a quel modo, e zio Ippopotamo lo batteva con lo zoccolo grosso grosso; e domandava a sua zia la Bertuccia perchè i melloni erano così dolci, e zia Bertuccia lo batteva con la zampa pelosa pelosa.
E ancora era pieno d’insaziabile curiosità. Faceva domande su tutto quello che vedeva, udiva, sentiva, odorava, o toccava, e tutti gli zii e tutte le zie lo battevano. E ancora era pieno d’insaziabile curiosità.

Una bella mattina, nel mezzo della precessione degli equinozzi, quell’insaziabile piccolo d’Elefante se ne uscì di punto in bianco con una domanda di nuovo genere:

– Che cosa mangia il Coccodrillo?

– Ssst!… – fecero tutti, imponendogli silenzio; e gliene diedero tante e poi tante, che non finivano più.

E quando furono finite, egli se n’ando dall’uccello Colocolo, che se ne stava in mezzo a un cespuglio d’Aspetta-un-Pezzo, e gli fece:

– Mio padre mi ha battuto, e mia madre mi ha battuto; tutti i miei zii e tutte le mie zie mi hanno battuto per la mia insaziabile curiosità; ma pure io voglio sapere che cosa mangia il Coccodrillo.
L’uccello Colocolo gli disse con un grido lamentoso:

– Va sulle rive del fiume Limpopo, fiancheggiato dagli alberi della febbre, e lo saprai.

La mattina appresso, quando non era rimasto più nulla degli equinozi, perchè la precessione aveva proceduto secondo i precedenti, l’insaziabile piccolo d’Elefante si prese un centinaio di chilogrammi di banane, un centinaio di chilogrammi di canne da zucchero e diciassette melloni, e disse a tutta la sua cara famiglia:

– Addio! Io vado al fiume Limpopo, tutto fiancheggiato dagli alberi della febbre, per scoprire ciò che mangia il Coccodrillo.

E tutti lo picchiarono ancora una volta per dargli il buon viaggio, sebbene egli li pregasse amabilmente di non picchiarlo.

Il Corsaro Nero

Ragazzi per Sempre | Avventura

Wan Stiller, Carmaux, il nero Moko, il perfido duca Van Guld, la bellissima Honorata, e il pallidissimo, coraggiosissimo, fatalissimo, invincibilissimo – e in effetti fichissimo – Corsaro Nero.
Non li avete dimenticati Vero?
Ora sono di nuovo con voi!

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La Folgore s’avanzava rapida come una rondine di mare, fendendo le acque sfolgoranti col suo acuto sperone. Pareva, tutta nera come era, il leggendario vascello fantasma dell’olandese maledetto, od il vascello-feretro navigante sul mare ardente.

Lungo le murate si vedevano schierati, immobili come statue, i filibustieri formanti l’equipaggio, tutti armati di fucili, e sul cassero di poppa, dietro i due cannoni da caccia, si scorgevano gli artiglieri colle miccie accese in mano, mentre sul picco della randa ondeggiava la grande bandiera nera del Corsaro, con due lettere d’oro bizzarramente incrociate da un fregio inesplicabile.

La scialuppa abbordò sotto l’anca di babordo, mentre il legno si metteva attraverso il vento, e si ormeggiò con una gomena gettata dai marinai dalla coperta.

«Giù i paranchi!…» si udì gridare una voce rauca. Due boscelli muniti d’arpioni furono calati dal pennone di maestra. Carmaux e Wan Stiller li assicurarono ai banchi, e la scialuppa ad un fischio del mastro dell’equipaggio, fu issata a bordo assieme alle persone che la montavano.

Quando il Corsaro Nero udì la chiglia urtare contro la coperta della nave, parve che si risvegliasse dai suoi tetri pensieri.

Si guardò attorno come fosse stupito di trovarsi a bordo del suo legno, poi si curvò presso il cadavere, lo prese fra le braccia e lo depose ai piedi dell’albero maestro.

Tutto l’equipaggio, schierato lungo le murate, vedendo la salma, s’era scoperto il capo.

Morgan, il comandante in seconda, era sceso dal ponte di comando ed era andato incontro al Corsaro Nero.

«Sono ai vostri ordini, signore» gli disse.

«Fate ciò che sapete» gli rispose il Corsaro, scuotendo tristamente il capo.

Attraversò lentamente la tolda, salì sul ponte di comando e s’arrestò lassù immobile come una statua, colle braccia incrociate sul petto.

Cominciava allora ad albeggiare verso oriente. Là dove il cielo pareva si confondesse col mare, una pallida luce saliva tingendo le acque di riflessi color dell’acciaio. Pareva però che anche quella luce avesse qualche cosa di tetro, poiché non aveva la tinta rosea consueta; era quasi grigia, ma d’un grigio ferreo e quasi opaco.

Intanto la grande bandiera del Corsaro era stata calata a mezz’asta in segno di lutto ed i pennoni dei pappafichi e dei contropappafichi, che non portavano vele, erano stati disposti in croce.

Il numeroso equipaggio della nave corsara era salito tutto in coperta, schierandosi lungo le murate. Quegli uomini dai volti abbronzati dai venti del mare e dal fumo di cento abbordaggi, erano tutti tristi e guardavano con vago terrore la salma del Corsaro Rosso che il mastro d’equipaggio aveva rinchiusa in una grossa amaca assieme a due palle da cannone.

La luce cresceva, ma il mare sfolgoreggiava sempre intorno alla nave, rumoreggiando sordamente contro i neri fianchi e frangendosi contro l’alta prora.

Quelle ondulazioni avevano in quel momento degli strani sussurrii. Ora parevano gemiti di anime, ora rauchi sospiri, ora flebili lamenti.

D’un tratto il tocco d’una campana echeggiò sul quadro di poppa.

Tutto l’equipaggio si era inginocchiato, mentre il mastro, aiutato da tre marinai, aveva sollevata la salma del povero Corsaro, deponendola sulla murata di babordo.

Un funebre silenzio regnava allora sul ponte della nave che era rimasta immobile sulle acque luminose; perfino il mare taceva e non mormorava più.

Tutti gli occhi si erano fissati sul Corsaro Nero, la cui nera figura spiccava stranamente sulla linea grigiastra dell’orizzonte.

Pareva che, in quel momento, il formidabile scorridore del Gran Golfo avesse assunto forme gigantesche. Ritto sul ponte di comando, colla lunga piuma nera svolazzante alla brezza mattutina, con un braccio teso verso la salma del Corsaro Rosso, sembrava che fosse lì lì per scagliare qualche terribile minaccia.

La sua voce metallica e robusta ruppe improvvisamente il silenzio funebre che regnava a bordo della nave.

«Uomini del mare!…» gridò, «uditemi!… Io giuro su Dio, su queste onde che ci sono fedeli compagne e sulla mia anima, che io non avrò bene sulla terra, finché non avrò vendicato i fratelli miei, spenti da Wan Guld. Che le folgori incendino la mia nave; che le onde m’inghiottano assieme a voi; che i due Corsari che dormono sotto queste acque, negli abissi del Gran Golfo, mi maledicano; che la mia anima sia dannata in eterno, se io non ucciderò Wan Guld e sterminerò tutta la sua famiglia come egli ha distrutto la mia!… Uomini del mare!… Mi avete udito?…»

«Sì» risposero i filibustieri, mentre un fremito di terrore passava sui loro volti.

Il Corsaro Nero si era curvato sulla passerella e guardava fisso fisso le onde luminose.

«In acqua la salma!…» gridò con voce cupa.

Il mastro d’equipaggio ed i tre marinai alzarono l’amaca contenente il cadavere del povero Corsaro e la lasciarono andare.

La salma precipitò fra le onde, alzando un grande spruzzo che parve un getto di fiamme.

Tutti i filibustieri si erano curvati sulle murate.

Attraverso l’acqua fosforescente si vedeva nettamente il cadavere scendere in fondo ai misteriosi abissi del mare, con delle larghe ondulazioni, poi tutto d’un tratto scomparve.

In quell’istante, al largo, si udì a echeggiare ancora il grido misterioso che aveva tanto spaventato Carmaux e Wan Stiller.

I due filibustieri, che stavano sotto il ponte di comando, si guardarono in viso pallidi come due cenci lavati.

«È il grido del Corsaro Verde che avverte il Corsaro Rosso» mormorò Carmaux.

«Sì» rispose Wan Stiller, con voce soffocata. «I due fratelli si sono incontrati in fondo al mare.»

Un colpo di fischietto interruppe bruscamente le loro parole.

«Bracciate a babordo!» gridò il mastro. «All’orza la barra!…»

I Promessi Sposi

Semper |
In una collana che si chiama Semper possono mancare i Promessi Sposi? Certamente no, anche se una letturina così leggera poi non sono. Ma tant’è, un sacco di fan ce li hanno chiesti e noi – obbedienti – li abbiamo pubblicati.
Però la copertina è bella vero?
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Arrivò a Sesto, sulla sera; né pareva che l’acqua volesse cessare. Ma, sentendosi più in gambe che mai, e con tante difficoltà di trovar dove alloggiare, e così inzuppato, non ci pensò neppure. La sola cosa che l’incomodasse, era un grand’appetito: ché una consolazione come quella gli avrebbe fatto smaltire altro che la poca minestra del cappuccino. Guardò se trovasse anche qui una bottega di fornaio; ne vide una; ebbe due pani con le molle, e con quell’altre cerimonie. Uno in tasca e l’altro alla bocca, e avanti.
Quando passò per Monza, era notte fatta: nonostante, gli riuscì di trovar la porta che metteva sulla strada giusta. Ma meno questo, che, per dir la verità, era un gran merito, potete immaginarvi come fosse quella strada, e come andasse facendosi di momento in momento. Affondata (com’eran tutte; e dobbiamo averlo detto altrove) tra due rive, quasi un letto di fiume, si sarebbe a quell’ora potuta dire, se non un fiume, una gora davvero; e ogni tanto pozze, da volerci del buono e del bello a levarne i piedi, non che le scarpe. Ma Renzo n’usciva come poteva, senz’atti d’impazienza, senza parolacce, senza pentimenti; pensando che ogni passo, per quanto costasse, lo conduceva avanti, e che l’acqua cesserebbe quando a Dio piacesse, e che, a suo tempo, spunterebbe il giorno, e che la strada che faceva intanto, allora sarebbe fatta.
E dirò anche che non ci pensava se non proprio quando non poteva far di meno. Eran distrazioni queste; il gran lavoro della sua mente era di riandare la storia di que’ tristi anni passati: tant’imbrogli, tante traversìe, tanti momenti in cui era stato per perdere anche la speranza, e fare andata ogni cosa; e di contrapporci l’immaginazioni d’un avvenire così diverso: e l’arrivar di Lucia, e le nozze, e il metter su casa, e il raccontarsi le vicende passate, e tutta la vita.
Come la facesse quando trovava due strade; se quella poca pratica, con quel poco barlume, fossero quelli che l’aiutassero a trovar sempre la buona, o se l’indovinasse sempre alla ventura, non ve lo saprei dire; ché lui medesimo, il quale soleva raccontar la sua storia molto per minuto, lunghettamente anzi che no (e tutto conduce a credere che il nostro anonimo l’avesse sentita da lui più d’una volta), lui medesimo, a questo punto, diceva che, di quella notte, non se ne rammentava che come se l’avesse passata in letto a sognare. Il fatto sta che, sul finir di essa, si trovò alla riva dell’Adda.
Non era mai spiovuto; ma, a un certo tempo, da diluvio era diventata pioggia, e poi un’acquerugiola fine fine, cheta cheta, ugual uguale: i nuvoli alti e radi stendevano un velo non interrotto, ma leggiero e diafano; e il lume del crepuscolo fece vedere a Renzo il paese d’intorno. C’era dentro il suo; e quel che sentì, a quella vista, non si saprebbe spiegare. Altro non vi so dire, se non che que’ monti, quel Resegone vicino, il territorio di Lecco, era diventato tutto come roba sua. Diede un’occhiata anche a sé, e si trovò un po’ strano, quale, per dir la verità, da quel che si sentiva, s’immaginava già di dover parere:
sciupata e attaccata addosso ogni cosa: dalla testa alla vita, tutto un fradiciume, una grondaia; dalla vita alla punta de’ piedi, melletta e mota: le parti dove non ce ne fosse si sarebbero potute chiamare esse zacchere e schizzi. E se si fosse visto tutt’intero in uno specchio, con la tesa del cappello floscia e cascante, e i capelli stesi e incollati sul viso, si sarebbe fatto ancor più specie. In quanto a stanco, lo poteva essere, ma non ne sapeva nulla: e il frescolino dell’alba aggiunto a quello della notte e di quel poco bagno, non gli dava altro che una fierezza, una voglia di camminar più presto.
È a Pescate; costeggia quell’ultimo tratto dell’Adda, dando però un’occhiata malinconica a Pescarenico; passa il ponte; per istrade e campi, arriva in un momento alla casa dell’ospite amico. Questo, che s’era levato allora, e stava sull’uscio, a guardare il tempo, alzò gli occhi a quella figura così inzuppata, così infangata, diciam pure così lercia, e insieme così viva e disinvolta: a’ suoi giorni non aveva visto un uomo peggio conciato e più contento.

– Ohe! – disse: – già qui? e con questo tempo? Com’è andata?
– La c’è, – disse Renzo: – la c’è: la c’è.
– Sana?
– Guarita, che è meglio. Devo ringraziare il Signore e la Madonna fin che campo. Ma cose grandi, cose di fuoco: ti racconterò poi tutto.
– Ma come sei conciato!
– Son bello eh?
– A dir la verità, potresti adoprare il da tanto in su, per lavare il da tanto in giù. Ma, aspetta, aspetta; che ti faccia un buon fuoco.
– Non dico di no. Sai dove la m’ha preso? proprio alla porta del lazzeretto. Ma niente! il tempo il suo mestiere, e io il mio.

L’amico andò e tornò con due bracciate di stipa: ne mise una in terra, l’altra sul focolare, e, con un po’ di brace rimasta della sera avanti, fece presto una bella fiammata. Renzo intanto s’era levato il cappello, e, dopo averlo scosso due o tre volte, l’aveva buttato in terra: e, non così facilmente, s’era tirato via anche il farsetto. Levò poi dal taschino de’ calzoni il coltello, col fodero tutto fradicio, che pareva stato in molle; lo mise su un panchetto, e disse:

– anche costui è accomodato a dovere; ma l’è acqua! l’è acqua! sia
ringraziato il Signore… Sono stato lì lì…! Ti dirò poi -. E si fregava le mani. – Ora fammi un altro piacere, – soggiunse: – quel fagottino che ho lasciato su in camera, va’ a prendermelo, ché prima che s’asciughi questa roba che ho addosso…!
Tornato col fagotto, l’amico disse: – penso che avrai anche appetito: capisco che da bere, per la strada, non te ne sarà mancato; ma da mangiare…
– Ho trovato da comprar due pani, ieri sul tardi; ma, per dir la verità, non m’hanno toccato un dente.
– Lascia fare, – disse l’amico; mise l’acqua in un paiolo, che attaccò poi alla catena; e soggiunse: – vado a mungere: quando tornerò col latte, l’acqua sarà all’ordine; e si fa una buona polenta. Tu intanto fa’ il tuo comodo.

Renzo, rimasto solo, si levò, non senza fatica, il resto de’ panni, che gli s’eran come appiccicati addosso; s’asciugò, si rivestì da capo a piedi. L’amico tornò, e andò al suo paiolo: Renzo intanto si mise a sedere, aspettando.

– Ora sento che sono stanco, – disse: – ma è una bella tirata! Però questo è nulla! Ne ho da raccontartene per tutta la giornata. Com’è conciato Milano! Le cose che bisogna vedere! Le cose che bisogna toccare! Cose da farsi poi schifo a se medesimo. Sto per dire che non ci voleva meno di quel bucatino che ho avuto. E quel che m’hanno voluto fare que’ signori di laggiù! Sentirai. Ma se tu vedessi il lazzeretto! C’è da perdersi nelle miserie. Basta; ti racconterò tutto… E la c’è, e la verrà qui, e sarà mia moglie; e tu devi far da testimonio, e, peste o non peste, almeno qualche ora, voglio che stiamo allegri.

Del resto mantenne ciò, che aveva detto all’amico, di voler raccontargliene per tutta la giornata; tanto più, che, avendo sempre continuato a piovigginare, questo la passò tutta in casa, parte seduto accanto all’amico, parte in faccende intorno a un suo piccolo tino, e a
una botticina, e ad altri lavori, in preparazione della vendemmia; ne’ quali Renzo non lasciò di dargli una mano; ché, come soleva dire, era di quelli che si stancano più a star senza far nulla, che a lavorare. Non poté però tenersi di non fare una scappatina alla casa d’Agnese, per rivedere una certa finestra, e per dare anche lì una fregatina di mani. Tornò senza essere stato visto da nessuno; e andò subito a letto. S’alzò prima che facesse giorno; e, vedendo cessata l’acqua, se non ritornato il sereno, si mise in cammino per Pasturo.
Era ancor presto quando ci arrivò: ché non aveva meno fretta e voglia di finire, di quel che possa averne il lettore. Cercò d’Agnese; sentì che stava bene, e gli fu insegnata una casuccia isolata dove abitava. Ci andò; la chiamò dalla strada: a una tal voce, essa s’affacciò di corsa alla finestra; e, mentre stava a bocca aperta per mandar fuori non so
che parola, non so che suono, Renzo la prevenne dicendo:

– Lucia è guarita: l’ho veduta ierlaltro; vi saluta; verrà presto. E poi ne ho, ne ho delle cose da dirvi.

Canto di Natale

Ragazzi per Sempre | Racconti

Siete afflitti da allergia del Natale? Vorreste gia’ essere a meta’ gennaio? Il pensiero dei prossimi festeggiamenti vi sconforta? Allora beccatevi la nostra Strenna Natalizia: Il Canto di Natale di Dickens!
E vedrete che, assieme a quelli dell’orrendo signor Scooge, anche i vostri occhi saranno aperti dagli spettri natalizi, e diventerete piu’ buoni.
Ah! la letteratura.

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Marley, prima di tutto, era morto. Niente dubbio su questo. Il registro mortuario portava le firme del prete, del chierico, dell’appaltatore delle pompe funebri e della persona che aveva guidato il mortoro. Scrooge vi aveva apposto la sua: e il nome di Scrooge, su qualunque fogliaccio fosse scritto, valeva tant’oro. Il vecchio Marley era proprio morto per quanto è morto, come diciamo noi, un chiodo di porta.
Badiamo! non voglio mica dare ad intendere che io sappia molto bene che cosa ci sia di morto in un chiodo di porta. Per conto mio, sarei stato disposto a pensare che il pezzo più morto di tutta la ferrareccia fosse un chiodo di cataletto. Ma poiché la saggezza dei nostri nonni sfolgora nelle similitudini, non io vi toccherò con sacrilega mano; se no, il paese è bell’e ito. Lasciatemi dunque ripetere, solennemente, che Marley era morto com’è morto un chiodo di porta.
Sapeva Scrooge di questa morte? Beninteso. Come avrebbe fatto a non saperlo? Scrooge e il morto erano stati soci per non so quanti anni. Scrooge era il suo unico esecutore testamentario, unico amministratore, unico procuratore, unico legatario universale, unico amico, unico guidatore del mortoro. Anzi il nostro Scrooge, che per verità il triste evento non aveva fatto terribilmente spasimare, si mostrò sottile uomo d’affari il giorno stesso dei funerali e lo solennizzò con un negozio co’ fiocchi.
Il ricordo dei funerali mi fa tornare al punto di partenza. Non c’è dunque dubbio che Marley era morto. Questo mettiamolo bene in sodo, se no niente di maraviglioso potrà scaturire dalla storia che son per narrarvi. Se non fossimo perfettamente convinti che il padre d’Amleto è morto prima che s’alzi il sipario, la sua passeggiatina notturna su pei bastioni al vento di levante non ci farebbe maggiore effetto della bisbetica passeggiata di un qualunque attempato galantuomo il quale se n’andasse di notte in un posto ventoso – il cimitero di San Paolo, poniamo – pel solo gusto di sbalordire la melansaggine del proprio figliuolo.
Scrooge non cancellò dall’insegna il nome del vecchio Marley. Parecchi anni dopo, leggevasi sempre sulla porta del magazzino: “Scrooge e Marley”. La ditta era nota per Scrooge e Marley.
Seguiva a volte che qualche novizio agli affari desse a Scrooge ora il nome di Scrooge e ora quello di Marley; ma egli rispondeva a tutti e due. Per lui era tutt’una cosa.
Oh! ma che stretta sapevano avere le benedette mani di cotesto Scrooge! come adunghiavano, spremevano, torcevano, scuoiavano, artigliavano le mani del vecchio lesina peccatore! Aspro e tagliente come una pietra focaia, dalla quale nessun acciaio al mondo aveva mai fatto schizzare una generosa scintilla; chiuso, sigillato, solitario come un’ostrica. Il freddo che aveva di dentro gli gelava il viso decrepito, gli cincischiava il naso puntuto, gli accrespava le guance, gli stecchiva il
portamento, gli facea rossi gli occhi e turchinucce le labbra sottili, si mostrava fuori in una voce acre che pareva di raspa. Sul capo, nelle sopracciglie, sul mento asciutto gli biancheggiava la brina. La sua bassa temperatura se la portava sempre addosso; gelava il suo studio né giorni canicolari; non lo scaldava di un grado a Natale.
Caldo e freddo non facevano effetto sulla persona di Scrooge. L’estate non gli dava calore, il rigido inverno non lo assiderava. Non c’era vento più aspro di lui, non c’era neve che cadesse più fitta, non c’era pioggia più inesorabile. Il cattivo tempo non sapeva da che parte pigliarlo. L’acquazzone, la neve, la grandine, il nevischio, per un sol verso si potevano vantare di essere da più di lui: più di una volta si spargevano con larghezza: Scrooge no, mai.

Apologia di Socrate

Semper |

Questa collana potrebbe chiamarsi “bagagli per il diluvio”.
Quante decine di milioni di vite avrà influenzato la lettura dell’Apologia ? A partire da Platone – che come prima opera della sua vita sentì il bisogno di raccontare la morte del suo maestro – la bellissima storia della morte di Socrate non ha mai smesso di essere parte della vita di tutte le generazioni dell’occidente.

Si capisce che amiamo questo libro vero?

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Per non aspettare un poco di tempo, voi, Ateniesi, nome avrete e biasimo da coloro che voglion vituperare la città, di avere ucciso Socrate, uomo sapiente: ché mi diranno sapiente, anche se non sono, quelli che vi voglion fare onta. La cosa vi veniva da sé, che io morissi, se aspettavate un poco: perché, guardate la età, come già è lontana dalla vita, e vicina alla morte. Ciò dico, non a tutti voi, ma sí a quelli che hanno votato la mia morte. E a questi stessi dico: – Credete, o Ateniesi, d’avermi colto di quei cotali argomenti sprovvisto con i quali poteva persuadere voi, se credeva che bisognasse dire e fare di tutto pur di scampare dalla condanna? Oh no! sprovvisto sí, non di argomenti, ma sí di audacia e impudenza e non disposto niente a parlare in quei tali modi a voi dolcissimi a udire, piangendo e lamentandomi e altre molte cose facendo e dicendo di me indegne,
dico, ma quali a udire vi hanno avvezzato gli altri. Ma né allora io credeva che bisognasse far cosa niuna servile, per paura del pericolo, né ora mi pento di essermi cosí difeso; anzi piú assai volentieri scelgo di essermi difeso in questo modo, e morire, che non in quello, e vivere; perché né in tribunale e né anche in guerra non conviene, né a me né ad alcun altro, far di tutto pur di scampare della morte; perché è certo che molte volte in battaglia uno scamperebbe della morte o se gittasse le armi o se verso gl’inseguitori egli supplichevole si volgesse, e che ci è nei singoli pericoli molti modi per fuggire la morte sí veramente che dia il cuore di fare e dire ogni vile cosa. Ma, Ateniesi, badate non sia malagevole, non già questo, il fuggir la morte; ma sí malagevole piú assai il fuggire la malvagità, la quale corre piú veloce della morte. E ora io, sí come tardo e vecchio, colto fui da quella che è piú tarda; i miei accusatori, sí come piú gagliardi e feroci, da quella che è piú veloce. E io me ne vado, condannato da voi a essere morto; costoro, condannati dalla verità a essere malvagi e ingiusti; e io accetto la pena mia, e questi la loro. Dovea forse essere cosí, e credo che ciascuno ricevuto ha sua misura.

Orlando Furioso

Semper |

Certo, per leggere in versi – al giorno d’oggi – ci vuole un fisico bestiale!  Però l’Orlando merita. Intanto è tutto composto da microstorie che si rincorrono, ma che sono anche autosufficienti … e così già passa subito la paura da Grande Tomazzone Scolastico. Poi ci si accorge subito che è stato scritto per esser letto a voce alta e per divertire. E così, appena ci si immerge nella lettura, è tutto un fiorire di immagini folgoranti e fascinose. Così, quello che rimane impresso, è che – terminato di leggere – vi sembra di averlo visto, anziché letto.
Una specie di protocinema!

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Quindi cercando Bradamante gìa
l’amante suo, ch’avea nome dal padre,
così sicura senza compagnia,
come avesse in sua guardia mille squadre:
e fatto ch’ebbe al re di Circassia
battere il volto dell’antiqua madre,
traversò un bosco, e dopo il bosco un monte,
tanto che giunse ad una bella fonte.

La fonte discorrea per mezzo un prato,
d’arbori antiqui e di bell’ombre adorno,
Ch’i viandanti col mormorio grato
a ber invita e a far seco soggiorno:
un culto monticel dal manco lato
le difende il calor del mezzo giorno.
Quivi, come i begli occhi prima torse,
d’un cavallier la giovane s’accorse;

d’un cavallier, ch’all’ombra d’un boschetto,
nel margin verde e bianco e rosso e giallo
sedea pensoso, tacito e soletto
sopra quel chiaro e liquido cristallo.
Lo scudo non lontan pende e l’elmetto
dal faggio, ove legato era il cavallo;
ed avea gli occhi molli e ‘l viso basso,
e si mostrava addolorato e lasso.

Questo disir, ch’a tutti sta nel core,
de’ fatti altrui sempre cercar novella,
fece a quel cavallier del suo dolore
la cagion domandar da la donzella.
Egli l’aperse e tutta mostrò fuore,
dal cortese parlar mosso di quella,
e dal sembiante altier, ch’al primo sguardo
gli sembrò di guerrier molto gagliardo.

E cominciò: – Signor, io conducea
pedoni e cavallieri, e venìa in campo
là dove Carlo Marsilio attendea,
perch’al scender del monte avesse inciampo;
e una giovane bella meco avea,
del cui fervido amor nel petto avampo:
e ritrovai presso a Rodonna armato
un che frenava un gran destriero alato.

Tosto che ‘l ladro, o sia mortale, o sia
una de l’infernali anime orrende,
vede la bella e cara donna mia;
come falcon che per ferir discende,
cala e poggia in un atimo, e tra via
getta le mani, e lei smarrita prende.
Ancor non m’era accorto de l’assalto,
che de la donna io senti’ il grido in alto.

Così il rapace nibio furar suole
il misero pulcin presso alla chioccia,
che di sua inavvertenza poi si duole,
e invan gli grida, e invan dietro gli croccia.
Io non posso seguir un uom che vole,
chiuso tra’ monti, a piè d’un’erta roccia:
stanco ho il destrier, che muta a pena i passi
ne l’aspre vie de’ faticosi sassi.

Ma, come quel che men curato avrei
vedermi trar di mezzo il petto il core,
lasciai lor via seguir quegli altri miei,
senza mia guida e senza alcun rettore:
per li scoscesi poggi e manco rei
presi la via che mi mostrava Amore,
e dove mi parea che quel rapace
portassi il mio conforto e la mia pace.

Sei giorni me n’andai matina e sera
per balze e per pendici orride e strane,
dove non via, dove sentier non era,
dove né segno di vestigie umane;
poi giunsi in una valle inculta e fiera,
di ripe cinta e spaventose tane,
che nel mezzo s’un sasso avea un castello
forte e ben posto, a maraviglia bello.

Da lungi par che come fiamma lustri,
né sia di terra cotta, né di marmi.
Come più m’avicino ai muri illustri,
l’opra più bella e più mirabil parmi.
E seppi poi, come i demoni industri,
da suffumigi tratti e sacri carmi,
tutto d’acciaio avean cinto il bel loco,
temprato all’onda ed allo stigio foco.

Di sì forbito acciar luce ogni torre,
che non vi può né ruggine né macchia.
Tutto il paese giorno e notte scorre,
E poi là dentro il rio ladron s’immacchia.
Cosa non ha ripar che voglia torre:
sol dietro invan se li bestemia e gracchia.
Quivi la donna, anzi il mio cor mi tiene,
che di mai ricovrar lascio ogni spene.

Ah lasso! che poss’io più che mirare
la rocca lungi, ove il mio ben m’è chiuso?
come la volpe, che ‘l figlio gridare
nel nido oda de l’aquila di giuso,
s’aggira intorno, e non sa che si fare,
poi che l’ali non ha da gir là suso.
Erto è quel sasso sì, tale è il castello,
che non vi può salir chi non è augello.

Mentre io tardava quivi, ecco venire
duo cavallier ch’avean per guida un nano,
che la speranza aggiunsero al desire;
ma ben fu la speranza e il desir vano.
Ambi erano guerrier di sommo ardire:
era Gradasso l’un, re sericano;
era l’altro Ruggier, giovene forte,
pregiato assai ne l’africana corte.

– Vengon (mi disse il nano) per far pruova
di lor virtù col sir di quel castello,
che per via strana, inusitata e nuova
cavalca armato il quadrupede augello. –
– Deh, signor (diss’io lor), pietà vi muova
del duro caso mio spietato e fello!
Quando, come ho speranza, voi vinciate,
vi prego la mia donna mi rendiate. –

E come mi fu tolta lor narrai,
con lacrime affermando il dolor mio.
Quei, lor mercé, mi proferiro assai,
e giù calaro il poggio alpestre e rio.
Di lontan la battaglia io riguardai,
pregando per la lor vittoria Dio.
Era sotto il castel tanto di piano,
quanto in due volte si può trar con mano.

Poi che fur giunti a piè de l’alta rocca,
l’uno e l’ altro volea combatter prima;
pur a Gradasso, o fosse sorte, tocca,
o pur che non ne fe’ Ruggier più stima.
Quel Serican si pone il corno a bocca:
rimbomba il sasso e la fortezza in cima.
Ecco apparire il cavalliero armato
fuor de la porta, e sul cavallo alato.

Cominciò a poco a poco indi a levarse,
come suol far la peregrina grue,
che corre prima, e poi vediamo alzarse
alla terra vicina un braccio o due;
e quando tutte sono all’aria sparse,
velocissime mostra l’ale sue.
Sì ad alto il negromante batte l’ale,
ch’a tanta altezza a pena aquila sale.

Quando gli parve poi, volse il destriero,
che chiuse i vanni e venne a terra a piombo,
come casca dal ciel falcon maniero
che levar veggia l’anitra o il colombo.
Con la lancia arrestata il cavalliero
l’aria fendendo vien d’orribil rombo.
Gradasso a pena del calar s’avede,
che se lo sente addosso e che lo fiede.

Sopra Gradasso il mago l’asta roppe;
ferì Gradasso il vento e l’aria vana:
per questo il volator non interroppe
il batter l’ale, e quindi s’allontana.
Il grave scontro fa chinar le groppe
sul verde prato alla gagliarda alfana.
Gradasso avea una alfana, la più bella
e la miglior che mai portasse sella.

Sin alle stelle il volator trascorse;
indi girossi e tornò in fretta al basso,
e percosse Ruggier che non s’accorse,
Ruggier che tutto intento era a Gradasso.
Ruggier del grave colpo si distorse,
e ‘l suo destrier più rinculò d’un passo;
e quando si voltò per lui ferire,
da sé lontano il vide al ciel salire.

Or su Gradasso, or su Ruggier percote
ne la fronte, nel petto e ne la schiena,
e le botte di quei lascia ognor vote,
perché è sì presto, che si vede a pena.
Girando va con spaziose rote,
e quando all’uno accenna, all’altro mena:
all’uno e all’altro sì gli occhi abbarbaglia,
che non ponno veder donde gli assaglia.

Fra duo guerrieri in terra ed uno in cielo
la battaglia durò sino a quella ora,
che spiegando pel mondo oscuro velo,
tutte le belle cose discolora.
Fu quel ch’io dico, e non v’aggiungo un pelo:
io ‘l vidi, i’ ‘l so: né m’assicuro ancora
di dirlo altrui; che questa maraviglia
al falso più ch’al ver si rassimiglia.

D’un bel drappo di seta avea coperto
lo scudo in braccio il cavallier celeste.
Come avesse, non so, tanto sofferto
di tenerlo nascosto in quella veste;
ch’immantinente che lo mostra aperto,
forza è, ch’il mira, abbarbagliato reste,
e cada come corpo morto cade,
e venga al negromante in potestade.

Splende lo scudo a guisa di piropo,
e luce altra non è tanto lucente.
Cadere in terra allo splendor fu d’uopo
con gli occhi abbacinati, e senza mente.
Perdei da lungi anch’io li sensi, e dopo
gran spazio mi riebbi finalmente;
né più i guerrier né più vidi quel nano,
ma vòto il campo, e scuro il monte e il piano.

Pensai per questo che l’incantatore
avesse amendui colti a un tratto insieme,
e tolto per virtù de lo splendore
la libertade a loro, e a me la speme.
Così a quel loco, che chiudea il mio core,
dissi, partendo, le parole estreme.
Or giudicate s’altra pena ria,
che causi Amor, può pareggiar la mia. –

Ritornò il cavallier nel primo duolo,
fatta che n’ebbe la cagion palese.
Questo era il conte Pinabel, figliuolo
d’Anselmo d’Altaripa, maganzese;
che tra sua gente scelerata, solo
leale esser non volse né cortese,
ma ne li vizi abominandi e brutti
non pur gli altri adeguò, ma passò tutti.

Racconti

Reincontri | Ugo Tarchetti
Se avete amato Edgard Allan Poe, impazzirete per Tarchetti. Poco più giovane dell’americano, accoglie immediatamente la sua lezione e scrive una serie di bellissimi racconti fantastici. Solo Tarchetti è più eroe tragico di Poe. Diventa famoso giovanissimo, è uno degli scapigliati della Milano postrivoluzionaira, e muore a 29 anni consumato dalla tisi, mentre sta scrivendo un romanzo e si mantiene coi racconti.
Assolutamente da non perdere.
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Nei primi giorni della mia residenza a Milano aveva dovuto quasi mio malgrado, stringere conoscenza con una famiglia, la quale per mediazione di amici, mi aveva reso anni prima alcuni servigii assai utili.
Abitava essa una di quelle casupole grigie e isolate che fiancheggiano il naviglio dalla parte occidentale della città – una vecchia casupola a due piani che il tetto sembrava comprimere e schiacciare l’uno sull’altro come una cappa pesante di piombo, tanto erano bassi ed angusti. Correvanle tutto all’intorno alcuni assiti neri e tarlati su cui si arrampicavano delle zucche nane e dei convolvoli malati di clorosi.
Un setificio vicino l’avvolgeva notte e giorno in un’atmosfera di fumo, l’umido del naviglio aveva prodotto qua e là alcune rifioriture nell’intonaco esterno delle pareti, e le aveva rivestite di muffa e di piccole pianticelle di acetosa; nubi di moscherini entravano per la bocca e pel naso al primo affacciarsi alla finestra; e il cicaleccio, e lo sbattere, e il canticchiare delle lavandaie che risciacquavano, e sciorinavano su quegli assiti e su quelle zucche produceva da mattina a sera un baccano continuato e assordante.
Non vi sono forse a Milano cento persone le quali abitino nel centro della città, e conoscano con esattezza quella parte de’ suoi dintorni. Milano è la miniatura esatta di una gran città; ha in piccole proporzioni tutto ciò che è proprio delle grandi capitali. Quel lembo estremo di case che costeggia il naviglio da Porta Nuova a Porta Ticinese è ciò che è la Marinella a Napoli, ciò che è il Temple a Parigi, ciò che è Seven-dials a Londra.

Avverso, mezzo per istinto, mezzo per progetto, a conoscere nuove cose e nuove persone, io ho sempre considerato una conoscenza nuova come un peso nuovo aggiunto alla mia vita – non aveva avuto però a dolermi di quella.
Era una famiglia di onesti negozianti arrichitasi mediocremente nel commercio, e venuta ad alloggiare in quella casa solitaria per godervi in pace la piccola fortuna che aveva raggranellato.
Silvia l’unica erede di quella fortuna, era una delle più splendide bellezze che io avessi mai veduto, e non aveva che diciasette anni allorchè io la conobbi. Non era una di quelle beltà fine e delicate che preferiamo spesso alle beltà robuste – l’amore ha fatto da alcuni anni un gran passo verso lo spiritualismo – ma la sua bellezza, benchè ineffabilmente serena benchè fiorente di tutti i vezzi della gioventù e della salute era temperata da qualche cosa di gentile e di pensieroso che non hanno ordinariamente le bellezze di questo genere. Nè io potrei dirne di più; ciascuno di noi porta in sè un ideale diverso di bellezza, e quando si è detto d’una donna: è leggiadra, si è detto tutto ciò che si può dirne. Un pittore, uno scultore potrebbero darne nella loro arte un immagine meno incompleta, la letteratura non lo può – le altre arti parlano ai sensi, la letteratura alle idee. Ho veduto due incisioni di Jubert, due angeli simboleggiati da due giovinette nude, paffute, rosate, per ciò che è colorito e pienezza di forme, due vere popolane; eppure l’artista aveva saputo dare a quei volti tanta spiritualità che incantavano e non si potevano guardare senza restarne rapiti. Nelle madonne del Carraccio ho osservato lo stesso contrasto. La bellezza di Silvia era di questo genere, risolveva in certo modo lo stesso problema – la spiritualità della materia.
Essa era una di quelle anime semplici, pie, modeste che non sanno aver mai alcun rancore colla vita, ricche di quella cara fatuità che la natura ha dispensato con tanta larghezza alla donna, felici nell’ordine e nella quiete che la loro semplicità medesima ha creato intorno ad esse, e che l’assenza delle loro passioni non può mai turbare.
Durante le mie prime visite, aveva conosciuto in quella famiglia un cugino di Silvia, certo Davide, giovine maturo e positivo che era giunto da poco a Milano, e che era stato un tempo interessato negli affari commerciali di quella casa. Pericoloso come tutti i cugini – non so se
parimenti fortunato – non m’era stato difficile accorgermi che egli amoreggiava la fanciulla.
Come tutti gli altri uomini non era nè bello, nè brutto – la bellezza dell’uomo è una cifra di cui non si è ancora trovato il valore, anche per la maggior parte delle donne non è che una cosa insignificante; noi cerchiamo nell’uomo un carattere, le donne vi cercano semplicemente un uomo – sono esse che hanno creato quel noto aforismo: un uomo è sempre bello.
Io confesserò che quella scoperta era stata uno dei motivi essenziali che m’avevano indotto a trascurare la conoscenza di quella famiglia. Io non aveva posto occhio nè sulla dote, nè sulla bellezza di Silvia, ma aveva compreso che l’amore di Davide che io credeva corrisposto mi poneva d’innanzi a lui in una certa quale inferiorità di cui mi sentiva umiliato. In ogni uomo che avvicina una donna si suppone il desiderio di corteggiarla; in due uomini che l’avvicinano a un tempo si suppone quasi il dovere di lottare per ottenerne la preferenza. Almeno la società ed il cuore umano hanno ancora di tali pregiudizii: abbiamo mutato vocaboli, ma non abbiamo mutato cose e passioni: presso ogni circolo di donne vi è ancora una piccola corte d’amore intima dove si combatte ad armi cortesi per l’affetto di una dama preferita. E poi io mi sono sempre sentito sì meschino dinnanzi ad un uomo positivo, che non mi bastò mai l’animo di impegnarmi in una lotta qualunque con un
nemico siffatto.
Che cosa è egli un dotto, un letterato, un sapiente al confronto di ciò che noi chiamiamo un uomo di mondo? È pur poca cosa l’ingegno! Come gli uomini ignoranti, col loro buon senso borghese, grossolano, triviale ci avanzano nella scienza e nella pratica delle cose! Noi non facciamo che inciampare come fanciulli a tutti i più piccoli scogli della vita!
Questa coscienza della mia inferiorità aveva dunque reso meno frequenti le mie visite – io ho ora nella stessa città in cui abito conoscenza di famiglie che mi reco a visitare ogni tre o quattro
anni, come tornassi da un viaggio di circonvoluzione attorno al globo – e più tardi, morto il padre di Silvia, che era delle persone della famiglia quella cui era più specialmente obbligato, ne aveva preso pretesto per troncarle completamente.

I Mille

Pensiero Fossile | Prima della Storia

Garibaldi è un rivoluzionario e un idealista, il suo pensiero, lontanissimo dall’essere conciliante, è violento e veemente. Le cose che dice, potrebbero esser state scritte oggi, tanto sono attuali. Niente di più lontano dalla figura addomesticata che la storia scolastica ci ha passato.
Ci hanno abituato a un Garibaldi personaggio a margine, un po’ folkloristico – con la sua indiscipina e il suo poncho – ma che comunque, in maniera in fondo borghesemente rassicurante “obbedisce”. I Mille non è un bel libro – sinceramente Garibaldi scrive da cani – non scorre d’un fiato, ma è un libro indimenticabile. Dopo non vedrete più le cose con gli stessi occhi. E questo è il compito della letteratura.

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Il male che dico del governo, credo sia inferiore ai meriti dello stesso, e desidero si creda che non per sistema io lo maledico, ma per puro convincimento di far bene, accennando al male.
Che la Monarchia per interesse proprio abbia secondato le aspirazioni nazionali nell’unificazione patria credo assurdo il negarlo, siccome assurdo sarebbe il negare aver la Democrazia seminato i campi di battaglia coi suoi martiri nell’intento solo generoso dell’unificazione dell’Italia e della sua emancipazione dal dominio straniero e teocratico.
Alcuni pochi che nelle fila della Democrazia pugnarono per il proprio avvenire, oggi si trovano nel Consorzio Monarchico, e quindi divisi dalla stessa, ed obbligati a continuar col governo la via di perdizione.[…]
Perseguitino pure l’Internazionale, cioè la miseria da loro creata e mantenuta – spargano pure sulla superficie dell’Italia, colla solita intenzione di corromperla, i soliti agenti del corruttore supremo di Roma – ed invece di costruire degli Ospizi d’asilo per i tanti condannati a morir di fame in questo inverno di carestia, comprino pure delle nuove tenute di caccia per divertirsi – e nuovi palazzi vescovili – vedremo come se la intenderanno colla fame della moltitudine.
In Germania, tutti lo dicono, non v’è più un solo individuo che non sappia leggere e scrivere. La Francia grida: istruzione ad ogni costo. E l’Italia prodiga il suo erario a pagare dei vescovi e simili agenti delle tenebre.
Ripeto: ve la intenderete colla fame – !
Dei preti dico poco male, me lo perdoneranno i miei concittadini, considerando che pur qualche cosa dovevo mollare alle paterne ammonizioni dello Spigolatore Bolognese all’Unità Italiana (giornale) sulle mie antifone contro i preti.

Candido

Semper |

Se, da 250 anni il Candido è un successo editoriale, un motivo ci sarà pure! L’ironia leggera di Voltaire – per quanto secolare – non può fare a meno di farci sorridere, e le vicende del candidissimo Candido sono innegabilmente divertenti. E così, stupiti noi stessi di poter trovare spassosi gli accidenti orrendi cui vanno soggetti i poveri eroi del libro, li seguiamo per tutta europa e diamo agio a Voltaire di poter filosoficamente sberleffare tutti i miti di un 700 meno luminoso di quello che vorrebbe farci credere.

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Era nella Vesfalia, nel castello del baron di Thunder-ten-tronckh, un giovinetto che aveva avuto dalla natura i più dolci costumi. Se gli leggeva il cuore nel volto. Univa egli a un giudizio molto assestato una gran semplicità di cuore, per la qual cosa, cred’io, chiamavanlo Candido. I vecchi servitori di casa avean de’ sospetti ch’ei fosse figliuolo della sorella del signor barone, e d’un buon gentiluomo e da bene di quel contorno, che questa signora non volle mai indursi a sposare perchè non aveva egli potuto provare più di settantun quarti di nobiltà, il resto del suo albero genealogico essendo perito per l’ingiuria de’ tempi.

Era il signor barone uno de’ più potenti signori della Vesfalia, perchè il suo castello aveva porta e finestre; e di più sala con arazzi. Tutti i cani de’ suoi cortili componevano in caso di bisogno una muta di caccia; i suoi staffieri erano i suoi cacciatori, e il piovano del villaggio il suo grande elemosiniere. Gli davan tutti dell’Eccellenza, e ridevano quando contava delle novelle.
La signora baronessa, che pesava circa trecentocinquanta libbre, si attirava per questo un grandissimo riguardo, e faceva gli onori della casa con una dignità che la rendeva più rispettabile ancora. La di lei figlia Cunegonda, in età di diciassett’anni, era ben colorita, fresca, grassotta, da far
gola. Il figlio del barone si mostrava tutto degno germe di suo padre. Il precettore Pangloss era l’oracolo di casa, e il giovanetto Candido ne ascoltava le lezioni con tutta la buona fede dell’età sua e del suo carattere.

Pangloss insegnava la metafisico-teologo-cosmologo-nigologia. Provava egli a maraviglia che non si dà effetto senza causa, e che in questo mondo, l’ottimo dei possibili, il castello di S. E. il barone era il più bello de’ castelli, e Madama la migliore di tutte le baronesse possibili.
– È dimostrato, diceva egli, che le cose non posson essere altrimenti; perchè il tutto essendo fatto per un fine, tutto è necessariamente per l’ottimo fine. Osservate bene che il naso è fatto per portar gli occhiali, e così si portan gli occhiali; le gambe son fatte visibilmente per esser calzate, e noi abbiamo delle calze, le pietre son state formate per tagliarle e farne dei castelli, e così S. E. ha un bellissimo castello; il più grande de’ baroni della provincia dev’essere il meglio alloggiato, e i majali essendo fatti per mangiarli, si mangia del porco tutto l’anno. Per conseguenza quelli che
hanno avanzata la proposizione che tutto è bene; han detto una corbelleria, bisognava dire che tutto è l’ottimo.

Candido ascoltava tutto attentamente, e se lo credeva innocentemente; perch’ei trovava Cunegonda bella all’estremo, sebbene non avesse mai avuto l’ardire di dirlo a lei. Egli concludeva che dopo la fortuna di esser nato barone di Thunder-ten-tronckh, il secondo grado di felicità era d’esser Cunegonda, il terzo di vederla tutti i giorni, il quarto di ascoltare il precettore Pangloss, il più gran filosofo della provincia, e in conseguenza del mondo.

Un giorno Cunegonda, passeggiando presso il castello in un boschetto cui si dava il nome di parco, vide tramezzo alle fratte il dottor Pangloss che dava una lezione di fisica sperimentale alla cameriera di sua madre, vezzosa brunetta e docilissima. Cunegonda ritornossene tutta agitata e pensosa, pensando a Candido L’incontrò ella nel ritornare al castello, e arrossì; Candido arrossì anch’egli; ella gli diede il buon giorno con una voce interrotta, e Candido le parlò senza saper quel ch’ei si dicesse. Il giorno dopo nell’escir da pranzo, Cunegonda e Candido si trovarono dietro a un paravento, Cunegonda si lasciò cascare il fazzoletto, Candido lo raccattò; ella gli prese innocentemente la mano, egli Candido innocentemente baciolla, con una vivacità, con un trasporto, con una grazia particolarissima; le loro bocche s’incontrarono, i loro occhi inffiammaronsi, le lor ginocchia caddero, le mani si strinsero. Il signor barone di Thunder-ten-tronckh passò accanto al paravento, e vedendo questa causa e questo effetto, cacciò via Candido dal castello a pedate. Cunegonda svenne, fu schiaffeggiata dalla baronessa appena rinvenuta che fu, ed ogni cosa fu sottosopra nel più bello e nel più delizioso di tutti i castelli possibili.

Farfui

RosaLimone | Milano

Nell’anno 1901 gli archetipi della milanesità erano già tutti lì: l’agente di borsa, l’industriale quarantenne che si è fatto da sé, la moglie di famiglia borghese …solo un secolo prima. Farfui è un bel romanzo di Zuccoli, un po’ rosa ma non troppo, sicuramente godibile, di quei libri che si va avanti a leggere per sapere come vanno a finire.

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Milano quell’anno sembrava palesar meglio del consueto la gioia strapotente di vivere che l’attività gigantesca le insufflava.
I suoi teatri luminosi, i caffè, i ritrovi erano stipati di pubblico. La, borghesia che dopo l’esposizione nazionale del 1881 aveva avuto la rivelazione della propria forza, s’era data appassionatamente alle industrie e al commercio, mutando viso in una ventina d’anni alla città e centuplicandone la possanza. Il frastuono era interminabile, soverchiato appena dal battere reiterato e senza requie della campana dei trams; tutte le vie formicolavano il giorno d’una folla avida di
lavoro e di guadagno; quando s’accendevano i lumi, era uno straripar nelle strade d’un’altra folla che correva a pagarsi i suoi piaceri. I milanesi non vanno mai piano. Milano andava formandosi quella maschera di città inesorabile, che abbatte e uccide i deboli, che non dà quartiere agli imbelli, e suscita ed esalta e innebria i forti.

Edoardo Falconaro, Morella, Lorenzo, tre milanesi di razza, vivevano la vita prosperosa della loro città con un senso di compiacimento.
La prepotenza trionfatrice della metropoli lombarda andava dilatandosi; quasi si sarebbe detto che si vedeva salire di giorno in giorno e dirompere come un fiume dalle acque veementi e torbe.
Il piccolo Farfui aveva compiuto quattr’anni, e prendeva parte anche lui alla vita milanese.
Passava sul Corso in carrozza con la sua mamma, e rideva felice quando i cavalli dovevano fermarsi per dar luogo a tante carrozze e alle automobili e ai trams ch’erano avanti; egli rideva, sapendo che Battista, il grosso cocchiere, si mordeva le labbra pel dispetto di dover fermare Bozzolo e Valì, che stavano spiegando le loro stupende virtù di trottatori.
E al piccolo piaceva di dovere nel frastuono alzar la voce, a farsi intendere. Sua madre e la signorina gli avevano insegnato che in casa non si alza la voce, che la voce non si alza mai, se non per una necessità; e quando il fragore della vita pulsante intorno era più vivo, Farfui urlando come un indemoniato, si ripagava a usura del tono sommesso che doveva usar tutto il giorno; e non era poco il suo
spasso a veder le faccie costernate della mamma e della governante.
Egli andava anche a teatro con Morella e Lorenzo a veder «le maschere». Per lui tutti gli artisti, lirici o drammatici, erano maschere, perchè vestivano in costume e comparivano sul palcoscenico; ma aveva per quelle maschere e per le altre che incontrava in istrada durante il carnevale un rispetto non privo d’invidia, un timore di venerazione, aspettandosi da loro cose stravaganti e difficili.
Farfui prendeva parte alla vita milanese; conosceva i bei negozii della città, e sapeva indicar benissimo alla cameriera dove occorreva recarsi per comperare i «marrons glacés» più grossi o i soldatini più solidi. Egli proteggeva tre o quattro negozianti di specialità, e quando recavano un involto, lo osservava per rilevare se venisse veramente da qualcuno dei suoi prediletti. Non sapeva ancora leggere; ma ricordava bene che la carta dell’uno era stampata con lettere rosse, e che il nastrino
dell’altro era verde, e che il terzo dava insieme all’involto un bel libriccino con le figure. E faceva gran conto di quelle infallibili indicazioni.

Appunto per accondiscendere alle preferenze di lui, un giorno Morella
condusse il bambino da un pasticciere che piaceva molto a Farfui, e gli lasciò comperare i dolci di suo gusto. Mentre ella usciva dal negozio, un uomo che ronzava là intorno da qualche tempo, le fece un profondo saluto. Morella rispose, e allungò un poco il passo….
– Chi è, mamma, quel signore? – domandò Farfui.
Morella, non rispose e il bambino volgendosi vide che l’uomo salutava
anche lui.
– Mi ha salutato, mamma, quel signore! – egli disse con aria mportante.
– E tu, che hai fatto? – domandò Morella continuando a camminare.
– Io l’ho salutato. Va bene, mamma? L’ho salutato anch’io!
– Va bene, – disse Morella.
Il signore che aveva salutato era Mariano Frigerio. Aveva salutato e tirato dritto, non osando fermare Morella; la sua camicia era priva di solino, il mantello spelacchiato, le scarpe sudice di mota; già gli pareva troppo che la signora avesse risposto chinando graziosamente il capo.

Mariano Frigerio sentiva d’esser condannato a sparire nel tumulto furioso di vita e di ricchezza che imperversava per la città, spazzando via gli uomini inutili.
Egli non aveva posto; i suoi compagni di lavoro l’avevan così sopravanzato, che quand’anche gli fosse stato possibile di riprender la corsa, non li avrebbe raggiunti più mai. Del resto, l’abitudine all’ozio imperava più forte di qualunque ragionamento. In casa c’erano ancora Livia, la quale si dilettava d’ubbriacarsi quando poteva, e il piccolo Fausto che aveva ormai valicato l’anno; ma non c’era altro.
Una delle due camere non aveva per addobbo che una tavola di rozzo legno bianco, nella quale era riposta una rivoltella, comperata quando Mariano aveva ancora qualche cosa da difendere. Gli oggetti d’arte, venduti pezzo per pezzo e non più a prezzi «di favore» come Mariano definiva la vendita fatta a Edoardo, ma a prezzi «di fame», a rivenduglioli e a rigattieri. Nell’altra camera rimanevano il letto veneziano in cui dormivano Livia e Fausto, e quel divano di cuoio, che un giorno faceva parte del «servizio per pancioni» e ora dava asilo al disgraziato, il quale si copriva con un paio di vecchie tende. Qua e là, stoviglie sporche e catinelle e forchette gettate alla rinfusa con
pezzi di sapone, e coltelli con cosmetici e pomate; perchè in quel naufragio spaventevole, Livia aveva perduto tutto, fuorchè l’abitudine d’imbellettarsi e di farsi un viso.

Mariano era agli estremi; e come certi animali che diventan più feroci
quando si sono addossati a un tronco e parano o inferiscono gli ultimi colpi, Mariano s’era fatto pericoloso. La sua agonia morale doveva essere tremenda. Di Livia non gli importava nulla; spesso la saziava a pedate. Ma egli teneva l’occhio su Fausto; il bambino aveva fame, era stato slattato e non gli davan da mangiare; strillava l’intero giorno e i vicini cominciavano a lagnarsene; se avessero mosso qualche osservazione al padron di casa, sarebbe venuto lo sfratto, perchè
Mariano era in arretrato col pagamento del fitto.

Andò a cercare di Scopa, di quel mercante di formaggio, rissoso e
provocatore, che Mariano si divertiva a beffare. Scopa era ricco, e sotto la scorza brutale non aveva cuor cattivo; per Mariano doveva nutrire una specie di simpatia poichè non l’aveva mai accoppato con un pugno; e ora lo avrebbe aiutato, rivedendolo dopo tanto tempo così mal ridotto, senza scarpine verniciate. Per trovarlo, Mariano si trascinò a piedi fino a Corsico, in una giornata frigida e nebbiosa. La bruma era pesante e su dal Naviglio fumigava un denso vapore acqueo, il quale si diffondeva nell’aria e toglieva la vista degli oggetti a pochi passi di distanza; una acquerugiola quasi impalpabile scendeva senza posa
dalla mattina, tramutando la strada in molle e lubrico pantano.
Scopa non c’era. Mariano interrogò i conoscenti e non potè averne notizie precise. Ma unpizzicagnolo, largo d’epa e sciolto di lingua, il quale stava sul limitare della sua bottega, udì quel nome e rispose con un sogghigno:
– Ah cerca di Scopa, lei?… Scopa è in galera.
– Accidenti! – pensò Mariano con un brivido. – Gliel’avevo detto!
– Già; dieci anni di reclusione, – seguitò l’altro, contento dell’effetto ottenuto con le sue parole. – E sono dieci perchè non sono trenta. Ha avuto fortuna, nel suo genere…. Guardi: proprio dov’è lei, Scopa ha aperto la pancia di Pinotto con una coltellata, e Pinotto è caduto lì…. Conosceva Pinotto? Bene…. Sa che Scopa aveva sempre in tasca quel suo coltello, largo tre dita, che gli serviva per il grana?…
Bravo. E con quello ha «liquidato» Pinotto…. Dieci anni di reclusione, perchè gli avvocati…. Basta pagarli, gli avvocati…. Negherebbero Cristo in croce…. Gli avvocati han dato ad intendere che il povero Pinotto aveva schiaffeggiato lo Scopa. Ma io che ho visto con questi occhi perchè ero qui, come adesso, sulla porta….

Mariano non volle udire più. Era la maledizione; gli amici gli cadevano al
fianco, il vuoto gli si faceva intorno…. Fissò il fango a terra, pastoso e
sdrucciolevole; veramente, la terra gli sfuggiva sotto i piedi….
E ripensò all’atroce profezia gettata in faccia allo Scopa in un giorno di
buonumore, con venticinquemila lire nel portafoglio: «Morirà in pace, al reclusorio di Pallanza». Ne ebbe rimorso e paura…. Scopa aveva risposto con un’altra profezia….

Stette un paio di giorni chiuso nelle sue camere, mangiando quei rifiuti dei salumieri, che la plebe milanese chiama «repubblica»; poi uscì, e s’imbattè in Morella Moro, che aveva per mano Aquileio. La carrozza l’aspettava; una bella carrozza chiusa di color verde cupo filettato di rosso, tratta da Febo, che invecchiando s’era ammansato. Fu un raggio di luce. Bisognava parlare a Lorenzo Moro, chiedere a lui,
commuoverlo. E si recò da Lorenzo.

I Fioretti di San Francesco

Semper |

In un’Italia del 1200, le storie – un po’ peripezie, un po’ parabole – dela vita di San Francesco.
Cinquantatre piccoli racconti, scritti in un volgare che riesce ad essere poetico e spassoso nello stesso tempo. Uno stile linerare e semplice accompagna un pensiero candido, quasi leggero.
Insomma, anche se nulla vi cale della vita dei santi, i Fioretti sono un libro bellissimo e affascinante.
E poi mentre lo si legge si ha sempre un’impressione, come se in fondo – di fianco alla esemplarietà delle storie – potesse far capolino, da un momento all’altro, il comico.

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Al principio e fondamento dell’Ordine, quando erano pochi frati e non erano ancora presi i luoghi, santo Francesco per sua divozione andò a santo Jacopo di Galizia, e menò seco alquanti frati, fra li quali fu l’uno frate Bernardo. E andando così insieme per lo cammino, trovò in una terra un poverello infermo, al quale avendo compassione, disse a frate Bernardo: “Figliuolo, io voglio che tu rimanghi qui a servire a questo infermo”. E frate Bernardo, umilmente inginocchiandosi e inchinando il capo, ricevette la obbidienza del padre santo e rimase in quel luogo; e santo Francesco con gli altri compagni andarono a santo Jacopo. Essendo giunti là. e stando la notte in orazione nella chiesa di santo Jacopo, fu da Dio rivelato a santo Francesco ch’egli dovea prendere di molti luoghi per lo mondo, imperò che l’Ordine suo si dovea ampliare e crescere in grande moltitudine di frati. E in cotesta rivelazione cominciò santo Francesco a prendere luoghi in quelle contrade. E ritornando santo Francesco per la via di prima, ritrovò frate Bernardo, e lo infermo, con cui l’avea lasciato. perfettamente guarito; onde santo Francesco concedette l’anno seguente a frate Bernardo ch’egli andasse a santo Jacopo.

E così santo Francesco si ritornò nella Valle di Spuleto, e istavasi in uno luogo diserto egli e frate Masseo e frat’Elia e alcuni altri, i quali tutti si guardavano molto di noiare o storpiare santo Francesco della orazione, e ciò faceano per la grande reverenza che gli portavano e perché sapeano che Iddio gli rivelava grandi cose nelle sue orazioni. Avvenne un dì che, essendo santo Francesco in orazione nella selva, un giovane bello, apparecchiato a camminare venne alla porta del luogo, e picchiò sì in fretta e forte e per sì grande spazio, che i frati molto se ne maravigliarono di così disusato modo di picchiare. Andò frate Masseo e aperse la porta e disse a quello giovane: “Onde vieni tu, figliuolo, che non pare che tu ci fossi mai più, sì hai picchiato disusatamente?”. Rispuose il giovane: “E come si dee picchiare?”. Disse frate Masseo: “Picchia tre volte l’una dopo l’altra, di rado, poi t’aspetta tanto che ‘l frate abbia detto il paternostro e vegna a te, e se in questo intervallo non viene, picchia un’altra volta”. Rispuose il giovane: “Io ho gran fretta, e però picchio così forte, perciò ch’io ho a fare lungo viaggio, e qua son venuto per parlare a frate Francesco, ma egli sta ora nella selva in contemplazione, e però non lo voglio storpiare ma va’, e mandami frat’Elia, che gli vo’ fare una quistione, però ch’io intendo ch’egli è molto savio”. Va frate Masseo, e dice a frat’Elia che vada a quello giovane. E frat’Elia se ne iscandalizza e non vi vuole andare; di che frate Masseo non sa che si fare, né che si rispondere a colui; imperò che se dicesse: frate Elia non può venire, mentiva; se dicea come era turbato e non vuol venire, si temea di dargli male esempio. E però che intanto frate Masseo penava a tornare, il giovane picchiò un’altra volta come in prima; e poco stante tornò frate Masseo alla porta e disse al giovine: “Tu non hai osservato la mia dottrina nel picchiare”. Rispuose il giovane: “Frate Elia non vuole venire a me; ma va’ e di’ a frate Francesco ch’io son venuto per parlare con lui; ma però ch’io non voglio impedire lui della orazione, digli che mandi a me frat’Elia”. E allora frate Masseo, n’andò a santo Francesco il quale orava nella selva colla faccia levata al cielo, e dissegli tutta la imbasciata del giovane e la risposta di frat’Elia. E quel giovane era l’Agnolo di Dio in forma umana. Allora santo Francesco, non mutandosi del luogo né abbassando la faccia, disse a frate Masseo: “Va’ e di’ a frat’Elia che per obbidienza immantanente vada a quello giovane”. Udendo frat’Elia l’ubbidienza di santo Francesco, andò alla porta molto turbato, e con grande empito e romore gli aperse e disse al giovane: “Che vuo’ tu?”. Rispuose il giovane: “Guarda, frate, che tu non sia turbato, come pari, però che l’ira impedisce l’animo e non lascia discernere il vero”. Disse frat’Elia: “Dimmi quello che tu vuoi da me”. Rispuose il giovane: “Io ti domando, se agli osservatori del santo Vangelo è licito di mangiare di ciò che gli è posto innanzi, secondo che Cristo disse a’ suoi discepoli. E domandoti ancora, se a nessuno uomo è lecito di porre dinanzi alcuna cosa contraria alla libertà evangelica”. Rispuose frat’Elia superbamente: “Io so bene questo, ma non ti voglio rispondere: va’ per li fatti tuoi”. Disse il giovane: “Io saprei meglio rispondere a questa quistione che tu”. Allora frat’Elia turbato e con furia chiuse l’uscio e partissi. Poi cominciò a pensare della detta quistione e dubitarne fra sé medesimo; e non la sapea solvere. Imperò ch’egli era Vicario dell’Ordine, e avea ordinato e fatto costituzione, oltr’al Vangelo ed oltr’alla Regola di santo Francesco, che nessuno frate nell’Ordine mangiasse carne; sicché la detta quistione era espressamente contra di lui. Di che non sapendo dichiarare se medesimo, e considerando la modestia del giovane e che gli avea detto ch’e’ saprebbe rispondere a quella quistione meglio di lui, ritorna alla porta e aprilla per domandare il giovane della predetta quistione, ma egli s’era già partito; imperò che la superbia di frat’Elia non era degna di parlare con l’Agnolo. Fatto questo, santo Francesco, al quale ogni cosa da Dio era stata rivelata, tornò dalla selva, e fortemente con alte voci riprese frat’Elia, dicendo: “Male fate, frat’Elia superbo, che cacciate da noi gli Agnoli santi, li quali ci vengono ammaestrare; io ti dico ch’io temo forte che la tua superbia non ti faccia finire fuori di quest’Ordine”. E così gli addivenne poi, come santo Francesco gli predisse, però che e’ morì fuori dell’Ordine.

Il dì medesimo, in quell’ora che quello Agnolo si partì, si apparì egli in quella medesima forma a frate Bernardo, il quale tornava da santo Jacopo ed era alla riva d’un grande fiume; e salutollo in suo linguaggio dicendo: “Iddio ti dia pace, o buono frate”. E maravigliandosi forte il buono frate Bernardo e considerando la bellezza del giovane e la loquela della sua patria, colla salutazione pacifica e colla faccia lieta sì ‘l dimandò: “Donde vieni tu, buono giovane?”. Rispuose l’Agnolo: “Io vengo di cotale luogo dove dimora santo Francesco, e andai per parlare con lui e non ho potuto però ch’egli era nella selva a contemplare le cose divine, e io non l’ho voluto storpiare. E in quel luogo dimorano frate Masseo e frate Egidio e frat’Elia; e frate Masseo m’ha insegnato picchiare la porta a modo di frate. Ma frat’Elia, però che non mi volle rispondere della quistione ch’io gli propuosi, poi se ne pentì; e volle udirmi e vedermi, e non potè”. Dopo queste parole disse l’Agnolo a frate Bernardo: “Perchè non passi tu di là?”. Rispuose frate Bernardo: “Però ch’io temo del pericolo per la profondità dell’acqua ch’io veggio”. Disse l’Agnolo: “Passiamo insieme; non dubitare”. E prese la sua mano, e in uno batter d’occhio il puose dall’altra parte del fiume. Allora frate Bernardo conobbe ch’egli era l’Agnolo di Dio, e con grande reverenza e gaudio ad alta voce disse: “O Agnolo benedetto di Dio, dimmi qual è il nome tuo”. Rispuose l’Agnolo: “Perché domandi tu del nome mio, il quale è maraviglioso?”. E detto questo, l’Agnolo disparve e lasciò frate Bernardo molto consolato, in tanto che tutto quel cammino e’ fece con allegrezza. E considerò il dì e l’ora che l’Agnolo gli era apparito; e giungendo al luogo dove era santo Francesco con li predetti compagni, recitò loro ordinatamente ogni cosa. E conobbono certamente che quel medesimo Agnolo, in quel dì e in quell’ora, era apparito a loro e a lui. E ringraziarono Iddio.

A laude di Gesù Cristo e del poverello Francesco. Amen

L’assassinio di via Belpoggio

RosaLimone | Trieste

Il libro raccoglie tre racconti lunghi di Svevo: “L’assassinio di Via Belpoggio”, “Lo specifico del dottor Menghi” e  “Vino generoso”.
Letteratura popolare alla maniera di Svevo:   storie leggere attraverso la narrazione soggettiva di ciascuno dei tre protagonisti. Tre vite implicate in delitti, incubi e fantascoperte, fermate dall’occhio chirurgico dell’autore.

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Dunque uccidere era cosa tanto facile? Si fermò per un solo istante nella sua corsa e guardò dietro a sé: Nella lunga via rischiarata da pochi fanali vide giacere a terra il corpo di quell’Antonio di cui egli neppure conosceva il nome di famiglia e lo vide con un’esattezza di
cui subito si meravigliò. Come nel breve istante aveva quasi potuto percepirne la fisionomia, quel volto magro da sofferente e la posizione del corpo, una posizione naturale ma non solita. Lo vedeva in iscorcio, là sull’erta, la testa piegata su una spalla perché aveva battuto malamente il muro; in tutta la figura, solo le punte dei piedi ritte e che si proiettavano lunghe lunghe a terra nella scarsa luce dei lontani fanali, stavano come se il corpo cui appartenevano si fosse adagiato volontario; tutte le altre parti erano veramente di un morto, anzi di un assassinato.
Scelse le vie più dirette; le conosceva tutte ed evitava
i viottoli per i quali non direttamente si allontanava. Era una fuga smodata come se avesse avuto le guardie alla calcagna. Quasi gettò a terra una donna e passò oltre non badando alle grida d’imprecazione ch’ella gli lanciava.
Si fermò sul piazzale di S. Giusto. Sentiva che il sangue gli correva vertiginosamente le vene, ma non aveva alcun affanno e non era dunque la corsa che lo aveva affaticato.
Forse il vino poco prima? Non l’assassinio, sicuramente non quello; non lo aveva né affaticato né spaventato.
Antonio lo aveva pregato di tenergli per un istante quel pacco di banconote. Poco dopo, quando Antonio gliene chiese la restituzione a lui balenò alla mente l’idea che ben poca cosa lo divideva dalla proprietà assoluta di quel pacco:
La vita di Antonio! Non ne aveva ancor ben concepita l’idea che già l’aveva posta ad esecuzione e si meravigliava che quella idea che ancora non era una risoluzione gli avesse dato l’energia di menare
quel colpo formidabile tale che dello sforzo si risentiva nei muscoli del braccio.
Prima di lasciare il piazzale stracciò l’involucro che chiudeva il pacco di banconote, lo gettò via e ne distribuì disordinatamente per le tasche il contenuto; poi s’incamminò con passo che volle calmo ma che ben presto e per quanto egli tentasse di frenarlo, ridivenne celere perché
moderarlo sul piano era difficile, dopo esser salito di corsa.
Finì che fu preso da un grande affanno che lo costrinse a fermarsi, proprio sotto il castello, con la sentinella che guardava la città nella quale allora allora era stato commesso il grande delitto.
Sulla scalinata che conduceva alla piazza della Legna gli fu più facile di moderare il passo ma soltanto badando di portare sempre tutti e due i piedi su uno scalino prima di scendere al prossimo. Voleva riflettere ma non seppe che prenderne l’atteggiamento. Ben presto si disse che non ve n’era bisogno visto che ogni suo movimento era ora dettato dalla necessità! Accelerò di nuovo il passo.
Senza ritardo egli si sarebbe recato alla ferrovia e avrebbe tentato di partire per Udine; di là gli sarebbe stato facile di passare in Svizzera.
Allora era perfettamente in sé. S’era dileguata la leggera nebbia prodotta nel suo cervello dalla cena che gli aveva pagata il povero Antonio. Non era stata la causa del delitto, ma il vino, fornitogli dalla sua vittima stessa, gliene aveva reso più facile l’esecuzione.
Se non avesse avuto quei fumi alla testa non avrebbe saputo dimenticare che commesso il delitto, molto ancora gli restava da fare prima di assicurarsene il frutto, e col suo carattere poco energico, inerte, avrebbe sempre cercato mezzi e modi e finito col non agire che al sicuro, dunque mai.
Dove si poteva uccidere al sicuro? E se ci fosse stato il luogo, Antonio si sarebbe potuto trascinare? Gli venne da ridere; quell’Antonio era tale un imbecille che lo si avrebbe potuto far andare espressamente ad un macello più lontano.
Camminava ora franco e calmo per la via ma non si dissimulava che la sua tranquillità veniva dal sapere che nessuno dei passanti poteva ancora essere a conoscenza del delitto da lui commesso. Per costoro, assolutamente, egli era ancora un uomo onesto e li guardava franco in
faccia quasi per usufruire per l’ultima volta del diritto che stava per perdere.

Il Cappello del Prete

RosaLimone | Napoli

Il Cappello del Prete, nella letteratura italiana, è noto come il primo romanzo del genere che poi diverrà il “giallo”.
In una Napoli post-garibaldina ma pre-unitaria, si muovono i personaggi indimenticabili di questo noir ante-litteram. Protagonisti un barone in rovina, con un recente passato garibaldino, nichilista e libertino, ora “pitocco disperato”, e un parroco usuraio, afflitto dalla dote singolare di indovinare  i numeri del lotto. Un intreccio avvincente in una Napoli slendida e vivida fine di secolo.

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Il Barone Carlo Coriolano di Santafusca non credeva in Dio e meno ancora credeva nel diavolo; e, per quanto buon napoletano, nemmeno nelle streghe e nella iettatura. A vent’anni voleva farsi frate, ma imbattutosi in un dotto scienziato francese, un certo dottor Panterre, perseguitato dal governo di Napoleone III per la sua propaganda materialistica ed anarchica, colla fantasia rapida e violenta propria dei meridionali, si innamorò delle dottrine del bizzarro cospiratore, che aveva anche una testa curiosa, tutta osso, con due occhiacci di falco, insomma un terribile fascinatore.
Per qualche anno il barone, detto «u barone», lesse dei libri e prese la scienza sul serio: ma non sarebbe stato lui, se avesse per amore della scienza rinunciato alle belle donne, al giuoco, al buon vino del Vesuvio, e ai cari amici. Il libertino prese la mano sul frate e sul nichilista, e dalla fusione di questi tre uomini uscí «u barone» unico nel suo genere, gran giuocatore, gran fumatore, gran bestemmiatore in faccia all’eterno. Nulla, e nello stesso tempo amabile camerata, idolo delle donne, coraggioso come un negro, e a certe lune fantastico come un bramino. Noi qui parliamo del barone della sua prima maniera quando non aveva piú di trent’anni. Napoli allora era tutta una festa garibaldina, bianca, rossa e verde. Le donne abbracciavano i bei soldati nella via e alzavano i bambini sulle braccia, perché Garibaldi li battezzasse nel nome santo d’Italia. Innanzi al ritratto dell’eroe si accendevano i lumi e si appendevano corone di fiori, come davanti a San Gennaro e alla Madonna Santissima. Santafusca prese una parte breve e brillante nelle ultime scaramucce di quel tempo e fu anche ferito alla fronte. Gliene rimase una cicatrice sopra il ciglio…, ma i bei tempi erano passati.
Oggi l’uomo aveva quarantacinque anni, una gran barba nera, un volto abbruciato dal sole e dai liquori, una gran voglia di godere la vita e una miseria profonda. Non godeva píú credito né presso gli amici, né presso i parenti, ch’egli aveva disgustati colla sua vita dissipata e colla sua bestiale empietà. Al frate, al nichilista, al libertino si aggiungeva ora un pitocco disperato, costretto a quarantacinque anni a mendicare dieci lire alla sua guardarobiera, se voleva pranzare e bere un cognac.
Al club avevano pubblicato il suo nome nell’albo degli insolvibili, e poiché non pagava piú i debiti del giuoco, tutti lo fuggivano ora come la lebbra. Sí, il barone Carlo Coriolano di Santafusca si sentí veramente la lebbra addosso quel dí che il canonico amministratore del Sacro Monte delle Orfanelle gli mandò a dire per l’ultima volta che, se entro la settimana non restituiva una cartella di quindicimila lire, il Consiglio d’Amministrazione avrebbe denunciata la cosa al Procuratore del Re.
I Santafusca per antico diritto avevano parte nell’Amministrazione del Sacro Monte, e nella sua qualità di patrono e di consigliere «u barone» aveva più volte pescato nelle strette del bisogno in fondo alla cassa dell’istituto, dando false o poco solide garanzie. Ora i gruppi erano venuti al pettine.
Il canonico diceva chiaro:
– Se vostra eccellenza non rende a questa pia Casa la cartella di lire quindicimila, il Consiglio sarà nella dolorosa necessità di portare il fatto davanti ai Tribunali.
Davanti ai Tribunali «u barone» non sarebbe mai andato, questo era certo. Eravamo al lunedí santo e c’eran davanti quasi quindici giorni alla fatale scadenza. In quindici giorni un uomo d’ingegno, che non ha voglia ancora di farsi saltare le cervella, deve trovare la maniera di non andare in prigione. Quale prigione avrebbe potuto tenerlo dentro? O che non ha piú boschi la Calabria ed è proprio finita la razza dei briganti?
Non era la prima volta che un Santafusca aveva battuta la campagna e un suo avolo, don Nicolò, era stato con Fra Diavolo sei mesi su per le rupi della Maiella ai tempi dei tempi: ma con tutto ciò il barone sentiva che un uomo in quindici giorni non ha tempo neppure di diventare un brigante. Bisognava adunque trovare qualche altro espediente piú spiccio e meno melodrammatico. Fuggire? Non era il caso di pensarci, perché quando si è poveri si viaggia male, Chiedere un prestito? A chi, se non c’era piú un cane che gli volesse dare un quattrino? Giocare, tentar la sorte? Nessuno voleva mescolare con lui un mazzo di carte, e poi, non sempre chi giuoca vince.
Non rimaneva che la sua villa di Santafusca, lontana un cinque chilometri da Napoli, che poteva fruttare ancora qualche migliaio di lire, a patto però di vendere fino all’ultimo chiodo, perché un terzo era ipotecato già al marchese di Vico Spiano, un terzo era una rovina e l’altro terzo rappresentava un rifugio, un tetto, un asilo d’un povero uomo sulla terra. Anche vendendo ciò che rimaneva di netto, non avrebbe potuto raggranellare quindicimila lire e dopo egli sarebbe rimasto un vagabondo intero, nudo nato, senza nemmeno un guanciale per posare il capo. Se un barone di Santafusca, si noti, contava ancora per qualche cosa nel mondo e se poteva sperar dì trovare ancora un cento lire per la fame e per la sete, questo credito, per quanto avariato, gli proveniva da quel vecchio palazzo, che imponeva ancora un certo rispetto al volgo e che sosteneva colla catena della tradizione un uomo ridotto ormai a far la parte di pulcinella.
Bisognava trovare le quindicimila lire e già eravamo giunti al giovedí santo senza alcun risultato.
Finalmente gli venne in mente prete Cirillo.

Demetrio Pianelli

RosaLimone | Milano

Le vicende della famiglia Pianelli, in una sorta di affresco rosa-noir. Vizi, disgrazie economiche, amori, morti e redenzioni in una Milano fin de siecle di piccoli funzionari alle prese con la vita di ogni giorno.

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Verso mezzodí Cesarino Pianelli, cassiere aggiunto, vide entrare nell’ufficio il cassiere Martini piú pallido del solito, col viso stravolto, con un telegramma in mano.
«Ebbene?» gli domandò, «che notizie mi dà?»
«Bisogna che io parta immediatamente. È moribonda!» rispose il Martini, con un groppo alla gola che gli mozzò le parole.
Povero diavolo! L’aveva sposata da poco piú di un anno e dopo un anno di tribolazioni, e quasi di agonia continua la poverina moriva consunta a Nervi, dove il medico l’aveva mandata a passare l’inverno.
«Vada, vada, Martini, resto io. Si faccia coraggio, vedrà. La gioventú si aiuta sempre.»
«Dovrei avvertire il commendatore, ma la corsa parte alle dodici e quarantacinque e non ho tempo. Gli scriverò appena potrò. Guardi, Pianelli, chiudo in questa cassa i valori principali e lascio a lei la chiave di quest’altra cassa. Vuole che gliene faccia la consegna? Saranno dieci o dodici mila lire in tutto.»
«Se lei si fida di me, per conto mio non ho bisogno di consegna» soggiunse il cassiere aggiunto, tutto commosso e premuroso.
«Mi fa una carità. Tenga conto del movimento di cassa e basta.»
«Si fidi di me: vada, non perda tempo» disse premurosamente il Pianelli, confrontando il suo orologio con quello elettrico del cortile.
«Se c’è bisogno, mi telegrafi.»
«Si faccia animo; fin che c’è vita, c’è speranza.»
«Grazie» balbettò il Martini.
Strinse la mano al Pianelli, sforzandosi di ingoiare le sue lagrime e se ne andò.
«Povero diavolo!» mormorò l’altro, tornando al suo posto. «Se c’è un galantuomo, gli càpitano tutte.»

Era il giovedí grasso.
Cesarino Pianelli, detto anche lord Cosmetico, cassiere aggiunto alla Posta, si ricordò che per le due e mezzo aveva dato convegno al Pardi, al Caffè Carini, e cercò di sbrigare in fretta le quattro faccende della giornata. Era un giorno di mezza vacanza anche per lui, che per parte sua conosceva magnificamente l’arte di prendersela.
Quel giorno aveva promesso a sua moglie, Beatrice, di condurla sul balcone del Gran Mercurio a vedere le maschere.
«Ci vediamo stasera?» domandò il Buffoletti, cacciando la testa nel finestrino dei pagamenti.
«Sí, ma non prima delle undici.»
«Meni tua moglie?»
«Sí.»
«Mi ha promesso l’Argo della Ragione che verrà a fare una lunga descrizione della festa sul giornale. Dammi il nome della tua signora.»
«Beatrice. Se questo signor Argo ci onora, avrò piacere di presentargliela.»
«Guarda che i giornalisti sono pericolosi.»
Il Pianelli, che scriveva, fumava e parlava tutto in una volta, mandò in aria un soffio lungo di fumo con una smorfietta della bocca, come se volesse dire: “Bah, soffio in viso ai giornalisti, io.”
«Viene anche il commendatore?»
«Sono stato a invitarlo; è raffreddato, ma cercherà di non mancare.»
«A rivederci.»
«Addio, bambino.»
Il circolo Monsù Travet era stato promosso e messo in piedi da questo Cesarino Pianelli nei primi giorni di carnevale, per offrire agli impiegati di diverse amministrazioni e alle loro egregie famiglie il mezzo di divertirsi e di far quattro salti in economia.
La proposta ed il piccolo programma avevano trovato appoggio non solo tra gli impiegati della Posta — eccettuati, naturalmente, i pezzi piú grossi — ma anche tra molti impiegati del Municipio e di Banche private, che avevano versato in mano al Pianelli le venti lire di primo ingresso e via via le cinque lire mensili per tutti i mesi dell’inverno.
Era un modesto principio: ma si sperava che il circolo non dovesse morire cosí, e potesse col tempo trasformarsi in un club di riunioni serali, o in un casino di lettura, o in un sodalizio di mutuo soccorso, in una cooperativa, o in qualche diavolo di questo genere.
Non erano le grandi idee che mancavano a Cesarino Pianelli, che se avesse avuto centomila lire alla mano…
Ma il primo suo torto era di non averle. Se però gli mancavano i denari gli stava a pennello il titolo che gli avevano regalato di lord Cosmetico, appunto per le sue arie di grandezza e di sufficienza, per la eleganza del suo modo di vestire, per i colletti in piedi, colle cravatte costose haute nouveauté, per i polsini che parevano di porcellana, e piú ancora per la lucentezza della chioma, tirata a furia di cosmetico in due pezze profumate sopra le tempie e aperta in due ventagli meravigliosi dietro le orecchie.
Non piú giovanissimo, anzi, se si deve dire, piú vicino ai quaranta che ai trentacinque, sapeva ancora colla carnagione bianca e fine e colla sua aristocratica magrezza resistere agli urti del tempo e aspirare al titolo di eterno bel giovine. La barba nera e crespa, morbida, divisa in due piccole punte sul mento, finiva col dargli quel carattere contegnoso e diplomatico che in questi tempi di americanismo insorgente non si trova piú che nei grandi camerieri del Cova, ultimi custodi delle tradizioni dei Palmerston, degli Ubner, dei Visconti-Venosta.
Era un magro giovedí grasso. Piovigginava. Tuttavia le strade formicolavano lo stesso della solita gente che ha sempre voglia di veder qualche cosa anche quando non c’è niente da vedere e che, in mancanza di meglio, si contenta di vedere sé stessa. Qualche balcone addobbato, qualche strillo di mascherotto, qualche carrozza coi campanelli, davano di tempo in tempo delle illusioni di giovedí grasso, ma intanto piovigginava malinconicamente.
Il Pianelli trovò il Pardi, com’erano d’accordo, seduto davanti a un tavolino del Caffè Carini, sotto i portici meridionali.
Melchisedecco Pardi, fabbricatore di nastri di seta con ditta al ponte dei Fabbri, uomo già sulla cinquantina, grasso d’una grassezza floscia e linfatica, buono d’animo, non ingenuo negli affari, che soffiava forte dalle canne del naso nel grosso bavero del suo paltò color nocciuola, era detto anche Pardone per la sua leale bonarietà e per la sua pancia.
Oltre il merito di saper fare molto bene il suo mestiere, aveva quello d’essere il marito della bella Pardina, una vespa tutt’ossi e spirito, con occhi tremendi, che da ragazza lavorava in fabbrica per dieci soldi al giorno, che aveva saputo farsi sposare dal padrone e che, a credere alle ciarle, fabbricava ancora molto bene i suoi nastri a parte.
Palmira Pardi e Beatrice Pianelli s’erano trovate a passare una vacanza insieme a Tremezzo sul lago di Como, all’albergo Bazzoni, dove piú d’una volta capitarono i rispettivi mariti colla solita corsa del sabato.
In campagna le amicizie sono presto fatte tra gente simpatica. Chi non avrebbe voluto bene a quel buon uomo grasso, cosí fino conoscitore del vino di Piemonte? Sempre d’un umore, piene le tasche di biglietti di banca, avrebbe sempre voluto pagar lui, tanto da obbligare lord Cosmetico, per non restare mortificato, a far portare il marsala o il bordò o a improvvisare un trattamento di dolci alle signore sulla terrazza.
«È un pezzo che mi aspetti?»
«Un momento. Ho ricevuto stamattina il tuo biglietto.»
«Dunque? Me le puoi dare queste duemila lire?»
«Signore Iddio!» rispose il Pardi, grattandosi l’orlo di un orecchio. «Come puoi avere bisogno di duemila lire?»
«M’è capitata una disgrazia in un pagamento.»
La voce del Pianelli si affievolí un poco. Si vedeva l’uomo non abituato a dire bugie.
«Di’ che hai giuocato, invece, e che hai perduto e amen!»
«Chi ti ha detto che ho perduto?»
«Palmira.»
L’occhio di Cesarino s’incantò un momento nell’aria.
«E mi ha detto che hai giuocato col tenore…»
«Bene, sí, ho giuocato e ho perduto. È una disgrazia anche questa che capita a chicchessia.»
«Se tu mi avessi detto che in questo vostro Circolo si giuoca, non avrei dato le mie venti lire di buon ingresso.»
«Non è che si giuochi, anzi è proibito; ma quando passa una cert’ora, se c’è chi tenta, non si è obbligati a essere sant’Antonio.»
«Io non so che gusto da bestia ci trovate in queste maledette carte.»
«Ognuno ha i suoi gusti, Secco. Tu, per esempio, preferisci andare a dormire all’ora delle galline e c’è chi ama provare delle emozioni.»
«Tua moglie lo sa?»
«Che c’entrano le donne?» disse lord Cosmetico affettando un sublime disprezzo per le donne.
Il Pardi, che pareva un uomo sulle spine, dopo aver cercato il cameriere cogli occhi, comandò una birra.
Cesarino volle un assenzio.
«Ebbene, che cosa mi rispondi?» chiese dopo un lungo e penoso silenzio il Pianelli, mentre lasciava cadere a goccia a goccia l’acqua chiara nel suo bicchiere d’assenzio verdognolo.
Il Pardi tentennò il testone, gonfiò le ganasce e, col tremito di una ragazza che resiste a care tenerezze, rispose:
«Mi rincresce ve’, ma questa volta non posso proprio davvero.»
Cesarino, che non si aspettava un rifiuto, indovinò subito da chi il buon ambrosiano aveva ricevuta l’imbeccata. Con uno di quei risolini sardonici con cui lord Cosmetico soleva soffiare la sua grande superiorità di spirito, domandò:
«Te l’ha detto anche questo tua moglie?»
«Uff!» fece il buon Pardone, voltandosi per due terzi sui gomiti a guardare nella piazza dove la folla andava agglomerandosi e crescendo. Il Pianelli era stato buon indovino. Palmira aveva proibito assolutamente di dare piú un soldo a questa gente bislacca e bisognava ubbidire.
«Senti, ti faccio anche una cambiale, se vuoi.»
«Che cambiale! Non posso, perché non ne ho.»
«Sai, son debiti d’onore!»
«Che onore d’Egitto! l’onore è quando si lavora e si paga il lavoro degli altri.»
«C’è onore e onore, Pardi, e spiace sempre di fare una cattiva figura.»
Cesarino pregò ancora una volta cogli occhi piccini e addolorati in cui si agitava una grande paura. Ma il Pardi si voltò a guardare le maschere.
Un piccolo raggio di sole, allargandosi attraverso all’aria bagnata, entrò in una luce biancastra e diluita a rallegrare un poco il Caffè, mentre nell’altro lato della piazza, al comparire della prima mascherata colla banda, si rianimava un po’ di rumore.
Seguí un altro bell’istante di silenzio, duro e arcigno da una parte, tedioso e incomodo dall’altra, durante il quale il Pianelli pensò se doveva inghiottire l’orgoglio e commuovere l’amico col racconto di tutta la verità.
E la verità era questa: le due mila lire perdute al giuoco col celebre tenore Altamura non erano che il fondo di cassa raccolto per le feste del Circolo. Per una boria da lord Cosmetico il Pianelli aveva pagato in pronti contanti il suo debito d’onore, ma, non avendone di suoi, s’era servito del denaro degli amici. Ora cominciavano i guai, i sospetti, le diffidenze e aveva ragione di dire: “Spiace sempre di fare una cattiva figura….”
Ora si trattava non piú d’un debito di giuoco, ma di stima, di fiducia, di delicatezza, e a Cesarino bruciava piú che se avesse ricevuta una coltellata nella carne.
«Ti pago gli interessi» provò a soggiungere.
«Non ne ho, e quando non ne ho è come spremere l’acqua da un sasso» rispose con una certa furia di uomo seccato il buon Melchisedecco Pardi, detto anche Secco o Pardone.
«Scusa…» si affrettò a dire coi denti stretti lord Cosmetico, che credeva d’aver pregato fin troppo. «Ti chiedo un prestito, non ti chiedo mica l’elemosina, per tua regola.»
«Non….»
«Scusa, ho creduto di rivolgermi a un amico prima che a un usuraio.»
«Ma se….»
«Scusa, ti dico. Tu hai ricevuto gli ordini e fai bene a eseguirli.» E qui lord Cosmetico tracciò in mezzo al suo discorso funebre un risolino ancora piú sardonico e tagliente del primo. Poi soggiunse, alzandosi: «Scusa il disturbo e procura di dormire i tuoi sonni tranquilli.»
Pardone lo guardò con un occhio piccolo e cruccioso. Che cosa voleva dire il signore?
Coll’aria alta e principesca che sapeva assumere nei grandi momenti, lord Cosmetico gettò i sei soldi dell’assenzio sul vassoio e uscí dritto dritto in un pezzo come se avesse ingoiata una canna di fucile.
Stette un momento sulla soglia a contemplare l’unghia lunga del dito mignolo, che era il suo modo di riflettere nei momenti piú gravi e pensò di passare di là, al Caffè Campari, in cerca di un certo Guerrini, detto anche il Bòtola, che prestava volentieri al trenta per cento. Ma la piazza era cosí piena di gente in quel momento…
Pardone, appoggiato colle gomita grasse al tavolino e alla sedia, seguitò a guardare le maschere cogli occhi gonfi e imbambolati.
Una grande commozione saliva e scendeva dentro di lui, facendo quasi le onde nella carne floscia del suo corpo di buon ambrosiano.
Egli aveva obbedito a Palmira, col dar nulla, e Palmira non ragionava male. Casa Pardi non era il pozzo di san Patrizio. Né questa era la prima volta che Cesarino parlava di prestiti e di cambiali.
Prima trecento lire, poi cinquecento, poi ottocento, adesso duemila… eh! eh! ce ne vogliono dei nastri per far tanti denari…
Se il signor Pianelli voleva fare il lord e mandare in lusso la moglie, non era bello niente affatto che i conti li facesse pagare agli amici. Son giusto i tempi di mungere un povero industriale, coi prezzi che si fanno della seta!…
“Cambiali!” tornava a pensare il povero Pardone, tutto arruffato ancora della violenza fatta al suo buon cuore. “Quando non si ha che lo stipendio di un travetto, una moglie bella, giovine, ambiziosa e tre figliuoli da mantenere, le cambiali si possono dare alla lavandaia insieme alla… alla… dei marmocchi.”
Pardone, gonfio ancora come un boa, ripeté tre o quattro volte questo monologo, guardando senza veder nulla le maschere e la gente che si agitava verso l’arco della Galleria Vittorio Emanuele.
Finalmente ordinò al piccolo un’altra birra.
“Che cosa aveva voluto dire il signore colla frase: cerca di dormire i tuoi sonni tranquilli? Voleva alludere a Palmira e al tenore?”
Egli era buono come un angelo, buono due volte, ma non tre volte; e il signor Cesarino aveva torto di vendicarsi di un rifiuto col lanciare là delle frasi in aria senza senso. Stupidello!
Si voltò ancora una volta verso i portici nella speranza di vedere ancora il Pianelli. Aveva bisogno di farsi spiegare quella frase. Era stato una bestia a non chiedere subito una spiegazione…
Girò gli occhi in su e in giú, ma il Pianelli se ne era già andato. Pardone avrebbe dato ora non due, ma quattro mila lire e una tazza di sangue per avere la chiave di quelle maledette parole.
Sentendosi morir di sete, tracannò d’un fiato il suo shop di Vienna, e si nettò i baffi bagnati di spuma col dosso della mano bianca e grassoccia.

I Misteri delle Soffitte

RosaLimone | Milano

Milano: la notte di un movimentato giovedì grasso. Una misteriosa giovane signora, con una bellissima maschera segue uno studente fin dentro la soffitta dove vive.  E lì assistono alla scena di un delitto.
Con lo stile tipico di Carolina Invernizio, la trama immediatamente si intreccia attraverso equivoci, tradimenti e segreti insvelabili. Fino al giusto trionfo dell’Amore.

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Era la notte del giovedì grasso. Nessuno si ricordava di un inverno mite come quello, e il carnevale aveva uno sfogo inusitato.
I ricchi se la spassavano nei palazzi; il popolo nelle osterie, sotto i portici, alla fiera, ai balli pubblici.
I veglioni erano affollati e, come il solito, più di tutti si mostrava animato quello dello Scribe.
Fra le maschere che avevano fatto il loro ingresso colà dopo la mezzanotte, vi era un domino femminile elegantissimo, troppo elegante, che stonava in quell’ambiente volgare.
Veniva forse in cerca di un’avventura galante? Aveva un appuntamento?
Una folla di studenti le fece cerchio.
– Cerchi me, bella principessa? – gridò uno di essi, un giovane allampanato, giallo come un limone. – Io sono disposto a darti tutto il mio cuore.
– Va’ là, poeta da quattro soldi! La bella è in cerca di un Trovatore dei tempi antichi, che sappia difenderla dagli audaci, piegare il ginocchio dinanzi a lei, e forse gli mostrerà appena la punta del suo bel nasino. –
Il domino, che fissava i suoi occhi grigi su quel gruppo di giovani e pareva studiasse la fisionomia di ognuno, disse con voce armoniosa:
– Hai indovinato, mio caro, ed ecco su chi faccio cadere la mia scelta. –
E posò la mano inguantata sulla spalla di un bel giovane dal volto leale, con occhi nerissimi e capelli biondi.
Scoppiò un evviva assordante, e per qualche minuto attorno alla coppia venne eseguita una danza folle, sfrenata,
Poi ognuno si sbandò per proprio conto, gridando:
– Buona fortuna, Aldo! –
Ma il giovane non pareva soddisfatto di quell’inattesa avventura galante. Tuttavia, volgendosi alla sua compagna, le chiese con accento gentile, dandole del voi:
– Dove debbo condurvi, signora?
– Fatemi fare un giro per il teatro, – rispose la maschera – poi conducetemi a casa vostra. –
Lo studente sussultò.
– A casa mia? – ripeté, come se non prestasse fede ai suoi orecchi.
– Sì. Che ci trovate di strano? Non avete una casa, voi? Vivete forse in famiglia? –
Aldo si era già rimesso.
– No, – rispose – vivo solo. Ma sono povero, ed abito in una soffitta.
– Che m’importa? –
Aldo rivolse al domino uno sguardo, tra il diffidente ed il corrucciato.
Ma l’ammirazione che destava nel pubblico la sua elegante compagna, finì col lusingare il suo amor proprio.
Egli pensava:
– Costei dev’essere molto bella, e sarei un pazzo se me la lasciassi sfuggire. Forse è una gran signora, che in questa notte di carnevale vuol soddisfare un morboso capriccio. Contentiamola; io nulla ci perdo; anzi, ho tutto da guadagnare in quest’avventura! –
Prima di uscire dal teatro, Aldo passò nella guardaroba e prendere il suo soprabito.
Aldo abitava sul corso San Maurizio.
Egli e la sua compagna salirono le scale umide e sporche. Confusi rumori turbavano la sconosciuta. Erano pianti di bambini, bestemmie di uomini, grida soffocate di donne.
– Che casa è mai questa? – chiese ella.
– È una specie di alveare. – rispose Aldo – né può garbare a voi, avvezza forse ad una palazzina quieta, senza inquilini. In questa casa abitano molte famiglie, quasi tutte composto di onesti operai, che lavorano dall’alba alla sera, e solo alle feste alzano un po’ il gomito e fanno chiasso. Però vi è di buono che nessuno si occupa dei fatti altrui, ognuno vive a sé, ed io mi trovo benissimo. –
Avevano già salito cinque piani e si avviavano verso la stretta scala che conduceva alle soffitte.
Il corridoio a destra e a sinistra sembrava interminabile.
Aldo volse a sinistra, e dopo pochi passi sì trovò, a faccia a faccia con un uomo vestito da pierrot, col volto infarinato. Costui si trasse da un lato senza dire parola, e lo studente strinse il braccio della sua compagna, come per dirle che non aveva nulla da temere.
Erano giunti dinanzi all’uscio della soffitta di Aldo. Egli accese un cerino, aprì con una chiave inglese e fece passare il domino. Quando, entrato egli pure, si voltò per chiudere, vide il pierrot quasi vicino all’uscio; ma, Aldo non parlò, per non spaventare la compagna, e chiusa la porta, tirò il catenaccio.
Fatto ciò, accese un lume che era sul tavolino, indi si volse alla sconosciuta.
Costei si era seduta sopra un divano e si guardava intorno con sorpresa.
Tutto era modesto, di una pulitezza eccezionale. Le due finestre avevano cortine bianchissime, come la coperta del letto. Sul tavolino stavano i libri ben allineati; l’armadio aveva i battenti lucidi come specchi; un paravento cinese nascondeva il lavabo; la stufa di maiolica rendeva un delizioso tepore.
– Siete alloggiato come un principe! – disse la sconosciuta.
Aldo sorrise.
– Io stesso – rispose – tengo in ordine la mia roba, rifaccio il letto, spazzo, pulisco dappertutto ogni giorno per conservare bene questi quattro mobili che mia madre ha comperati con molti sacrifizi. Perché io sono povero, signora, e non lo nascondo. Ma voi non siete venuta qui per sentire la mia storia. Perdonatemi. –
Sedette accanto a lei, e con voce sommessa:
– Perché non vi levate la maschera? – disse.
Ella mormorò:
– Lasciatemi, signore, ve ne supplico! –
Poi si piegò, svenuta.
Aldo ne fu spaventato. Per farle riavere il respiro, le tolse la maschera dal viso, e mandò un grido d’ammirazione. Com’era bella!
A un tratto la sconosciuta aprì gli occhi, due occhi grigi ornati di lunghe ciglia nere, e disse con l’accento della più sincera disperazione:
– Mio Dio, che cosa ho fatto? Perché sono venuta qui? –
Aldo, stupito, rispose:
– Ci siete venuta di vostra volontà, signora. Ma io credo di avervi usato tutto il rispetto che meritate.
– No, non lo merito; ma voi siete buono, signore, e lo sarete ancora. Ah! la mia scelta è caduta bene, altrimenti sarei stata perduta per sempre! –
Si passò una manina sulla fronte e con voce interrotta:
– Se sapeste!… – proseguì. – Stasera ero come pazza: ho scoperto un tradimento che spezza tutta la mia vita di amore, di devozione, di fedeltà, e volendo calpestare l’onore di colui che mi tradisce, mi sono recata al veglione dello Scribe. Era mia intenzione di darmi al primo uomo che mi fosse piaciuto, qualunque fosse, per poter gridare oggi all’altro:
«- Anch’io ho avuto un amante! –
«Ma all’uscire con voi dal teatro ero già esaurita dallo sforzo fatto; poi, nell’entrar qui, ho avuto vergogna di me ed ho perduto i sensi. –
La giovane scoppiò in lacrime, nascondendo il bel volto sul divano.
Aldo, commosso, le rivolse parole di conforto.
La sconosciuta si era a poco a poco calmata; ella rialzò la testa, stese le mani al giovane, che le strinse fra le sue con viva simpatia.
In quel momento un grido acuto, terribile, un grido di morte risvegliò tutti gli echi del casamento e fece balzare in piedi Aldo e la sua compagna.
Al tempo stesso si udì uno sbattere di uscì, voci che chiamavano aiuto, altre che gridavano:
– All’assassino! –
Aldo si slanciò fuori e la sconosciuta lo seguì con la lucerna accesa.

Guerra in Tempo di Bagni

RosaLimone | Livorno

Vassallo, scrive un rosa che è un capolavoro di leggerezza spensierata. Lazzi cavallereschi, corteggiamenti e burle, in questa duello tra un anziano ammiraglio e il giovane nobile pretendente della figlia, naturalmente osteggiato.
Fa da sfondo una sorprendente Livorno balneare a ridosso dell’Unità d’Italia, quando la capitale era … Firenze.

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Nella frescura dell’atrio, intorno a una tavola tonda, ingombra di giornali illustrati e di riviste s’era formato, nel riposo d’un marivaudage sottovoce, un gruppo di signori e dame, alla cui oziosa fantasticheria l’arrivo inopinato dell’ammiraglio Sterbini, aveva prodotto una certa sensazione. La bella marchesa di Santacilia aveva chiesto al barone De Renzis:
— Come mai quell’orso d’ammiraglio, nel Grand Hôtel?
— Fa specie anche a me: sarebbe lo stesso che veder voi entrare in chiesa.
— Eppure, ci vado spesso.
— Dunque peccate assai?
— Voi non siete il mio confessore.
— Ma sarei lieto…. di prepararvi dei materiali per lui.
L’ammiraglio attraversò il vestibolo, senza guardare in faccia a nessuno. Era un uomo piut-tosto alto, alquanto corpulento, eppure ben proporzionato. Il viso maschio, di lineamenti pronunziati ma regolari, era incorniciato da due scopettoni folti, crespi e grigi, come i capelli, e due sopraccigli ispidi ombreggiavano lievemente lo scintillìo di due occhi vivaci, penetranti, che non mancavano di dolcezza, gli occhi dell’uomo abituato alla vita libera e al comando. Entrato giovinetto nella marina napoletana, era poi passato sui legni italiani col grado di tenente di vascello, percorrendo man mano tutti i gradi, fino al supremo di ammiraglio. Dopo la presa d’Ancona, era stato posto all’ordine del giorno, esempio di valore e d’audacia. Salvatosi per prodigio, dopo atti eroici, nelle acque di Lissa, aveva avuto la medaglia d’oro e soleva dire:
— Questa vale meglio d’un titolo di principe.
Era stato anche ministro della marina, ma s’era dimesso dopo due o tre mesi, uggito delle formalità parlamentari.
— Preferirei — diceva — affrontare dieci Tegethoff, che un solo avvocato.
I colleghi videro con piacere la sua uscita dal gabinetto, perchè la sincerità del carattere è un gran brutto difetto, nella vita politica.
A poco a poco, l’ammiraglio s’era ritirato quasi da tutto, rifugiandosi a Livorno in una casa bella e tranquilla, con un giardino folto d’oleandri e di magnolie che proiettavano un’ombra mite e profumata sopra un grazioso chalet, trasformato in un nido carino per la figlia Bice che l’ammiraglio, s’intende alla sua maniera, idolatrava con tenerezze quasi materne miste agli scoppî irrefrenabili del suo carattere impetuoso, che non ammetteva volontà superiori alla sua, in nessuna questione, grande o piccola che fosse.
L’ammiraglio, dirigendosi al segretario dell’albergo, disse:
— Fatemi annunciare al conte Tibaldi.
Il barone De Renzis, che lo seguiva con la coda dell’occhio, bisbigliò nell’orecchio roseo della Santacilia:
— Suppongo d’essere sulle tracce.
— Si tratta di cosa interessante?
— Dipende: può finir subito nel modo più volgare, ma può diventare una commedia ricca d’intreccio e divertentissima.
— Quell’orsacchione avrebbe dunque qualche intrigo?
— Per amor di Dio! non sapete ch’egli, da vent’anni, ha una ripulsione profonda verso il gentil sesso?
— Non è che una restituzione.
— Eppure…. sarebbe meglio odiarvi!
— Badate: voi vi compromettete.
— Ah, siete voi che non vi compromettete mai abbastanza.
Sebbene aspettasse la visita, nel sentire annunciare l’ammiraglio il conte Tibaldi trasalì e ri-spose, con voce alquanto tremula, al cameriere:
— Fatelo passare nel salotto.
Massimo lo guardava con piglio un po’ canzonatorio, dicendo:
— Non ti manca più che svenire.
— No, — rispose Giorgio, — ti garantisco che sono forte e deliberato a parlare con la più grande chiarezza.
— E allora va e che Dio t’assista.
Giorgio si precipitò nel salone e afferrò la mano grossa e larga dell’ammiraglio che, in una stretta poderosa d’espansiva amicizia, quasi minacciò stritolare le dita sottili e aristocratiche del giovine conte.
— Come va, come va? caro conte! — esclamava l’ammiraglio, con la sua voce stentorea, — sono parecchi anni che non ci siamo visti; ma vi trovo sempre lo stesso: tranne i baffetti, siete sempre quel monello di una volta. Come somigliate alla mamma vostra! eh, gli anni passano: io vi ho visto alto così e allora eravate un grano di pepe. Vi ricordate quando, nel salotto, riesciste a portarmi via la sciabola? Io ci ridevo come un matto, ma qualcuno vi diede una buona tirata di orecchi. E a proposito di tirare: Avete continuato a tirare la grammatica in faccia al vostro maestro?
— Al contrario: ho fatto tutti i miei studi, con zelo prodigioso: basti dire che ho la mia laurea, e potrei anche difendere la vedova e il pupillo.
— Male, male: io detesto gli avvocati. Oh, scusate…. ma già voi lo siete così poco! Soltanto io non capisco come, con l’esempio di vostro zio…. quello era un uomo!… non vi siate dato anche voi alla carriera delle armi. Quante volte gli ho detto: consegna Giorgio a me, e ne farò un buon ma-rinaio. A quest’ora, sareste già tenente di vascello: magari mio aiutante di bandiera. Ma egli vi amava come un padre e non volle mai separarsi da voi. I vecchi sono egoisti.
L’egoismo dei vecchi? Ecco appunto, — pensò Giorgio, — il bandolo del discorso, l’argomento per entrare in materia: e raccogliendo le proprie forze, quasi soffiando con l’anima sulle fiamme dell’amore, per avvivarne l’incendio e ritrarne vigore, balbettò:
— Non tutti sono egoisti: voi, per dirne uno, siete l’esempio del contrario.
— Vi sbagliate, caro Giorgio, sono appunto il Dio degli egoistoni.
— Eppure, consacrate la vostra vita, come una madre, alla signorina Bice.
— Per amor del cielo! ho fatto appena appena il mio dovere e forse neanche, ma non potevo far di più. Avrei voluto tenerla con me, ma che educazione potevo dare io, un marinaraccio che qualche volta ha bisogno assoluto di bestemmiare, a una ragazza delicata come quella? Per ciò, fui costretto a metterla nel collegio di Poggio Imperiale, indicatomi appunto dal vostro povero zio. E ne fui ben soddisfatto. Bisogna dire che quelle brave signore hanno saputo coltivare mente e cuore nel-lo stesso tempo. È istruita, è svelta, è amorevole….
— Ma dica pure liberamente ch’è un vero prodigio. Non ho avuto l’onore d’avvicinarla che nei tre giorni ne’ quali mio zio la volle presso di sè….
— Brav’uomo! quanto le voleva bene!
— Ma come si fa a non volerle bene? Le assicuro che io…. tutti ne siamo rimasti incantati: non ho mai trovato, in nessuna creatura, unite tante doti di bellezza, di grazia, di spirito….
La faccia larga dell’ammiraglio si spianava, irraggiando tutto l’orgoglio paterno: pure, bru-scamente interruppe:
— Peccato che sia una ragazza! io non avevo, sognato che un maschio magari brutale come sono io, a costo che facesse eco ai giuraddii che mi scappano ogni tanto di bocca. Quando mi scap-pano, Bice fa una certa smorfietta, che bisognerebbe vederla: e io a dirle: abbi pazienza, figliuola mia, non conosci il nostro proverbio? si naviga senza vento, ma senza moccoli no!
— Sarà contenta però d’essere in casa sua, vicina al suo papà.
— Poverina: si contenta di ben poco, perchè, diciamolo pure, io non sono una delle compa-gnie più piacevoli per la sua età. A proposito, venite a trovarci la sera: almeno, si faranno quattro ciarle: berrete del grog delizioso e vi farò fumare le sigarette russe.
— Buone: ma non verrò certamente attratto dalle sole sigarette russe….
— Pure, è quel che troverete di meglio; apprezzo gli amici, ma non amo i conoscenti: per cui le visite sono molto rare e la conversazione è poco brillante. Tali sono le mie abitudini. Quando mia figlia sarà maritata, diventerà lei la padrona e farà quel che le piacerà. A me basta che mi lascino un cantuccio caldo e una tazza di grog.
— E pensate di maritarla presto?
— Più presto che sia possibile.
— Vedete, dunque, che siete tutt’altro che un egoista?
— Al contrario: tutto è ispirato dal mio egoismo di vecchio. Ah, io non dissimulo: proprio così. Il matrimonio di Bice non porterà nessun cambiamento nella mia vita. Ella sposerà il capitano Ezio Liberti, che a giorni appunto, reduce da Massaua, deve arrivare a Livorno.
— Ma è proprio deciso questo matrimonio?
— Sfido! voi sapete che il padre di Liberti mi ha salvato la vita, a Lissa….
— Conoscevo quest’episodio, ma mio zio mi raccontò invece che foste voi a salvare la vita al Liberti.
— Non importa! — brontolò l’ammiraglio, — sarà meglio dire che ce l’abbiamo salvata uno coll’altro, perchè ci siamo trovati nello stesso pericolo. S’egli non avesse spinto verso me la tavola che appena gli serviva d’appoggio, sarei perito: viceversa se, quand’egli, perdendo sangue dalla sua ferita alla spalla, quasi si svenne, non avessi nuotato per me e per lui, si sarebbe perduto. Del resto, povero amico, sarebbe stato meglio! La sua fine, in quel mare e in quel giorno, valeva meglio che una consunzione cancrenosa nell’ospedale. Ebbene, in quel momento supremo, facemmo quello che tutti avrebbero fatto nel caso nostro. Il superstite avrebbe pensato alla famiglia dell’amico. Io aveva una bimba, egli un ragazzino. Toccò a me essere il padre di suo figlio. E mi fa piacere d’avere esaudito i voti di quell’amico impareggiabile, perchè il capitano Ezio Liberti è degno figlio di suo padre. È marinaio di razza. È stato nelle Indie, al Giappone, in America, sempre in navigazione, da dodici anni, egli non conosce che la vita del mare. Lo lasciai, si può dire, ragazzo: e ora si sarà fatto bello, grande e grosso, forte come suo padre. Mi par di vederlo.
— E vostra figlia è contenta?
— Ma sarà contentona! e dove trovare un marito meglio di Liberti?
— Capisco; ma se non si conoscono?
— Tanto meglio; passeranno il tempo a conoscersi. E come vi dicevo, con questo matrimonio sarà coronato il mio legittimo egoismo. Un uomo di mare è il marito ideale. Ogni tanto parte, fa un viaggetto, ritorna come un fidanzato e ricomincia la luna di miele. È soppressa quella eterna vita in comune che spegne ogni poesia nel matrimonio. Credete, quand’ io, di ritorno dai paesi lontani, rivedevo la mia buona Eleonora, mi pareva di tornare, com’è veriddio, a vent’anni. E così, ora, quando Ezio sarà in viaggio, io riacquisterò in casa tutta la mia sovranità di padre: e farò tutto quello che voglio io, anche perchè io voglio soltanto quel che vuole mia figlia.
— Dunque la signorina Bice consente a questa unione?
— Non c’è dubbio.
— Non ha fatto nessuna obiezione?
— Anzi, è stata esplicita: lo sposerò se mi piacerà. E siccome non può a meno di piacerle….
— Resta a vedersi: alla simpatia non si comanda. Credo anch’io che il capitano Liberti sia un valentuomo, ma potrebbe essere pure che non le andasse a genio.
— Ma dal momento che piace a me.
— Non dovete mica sposarlo voi! e se a lei non andasse, vorreste sacrificare vostra figlia?
— Ma che sacrificio d’Egitto! Non è gobbo, non è storto, farà una splendida carriera, che mai si potrebbe desiderare di più?
— Va bene, ma intanto non lo ha mai visto. E se provasse un senso di ripugnanza….
— Fisime da ragazza! penserei io a farla rinsavire, e a farle capire tutti i vantaggi che…. E poi se non volesse capire, corpo d’un cane, dovrebbe sposarlo ugualmente! Non mi rimangio la mia parola, io, per le smorfie d’una ragazza. Cioè, no: che cosa vado dicendo? sempre il mio caratterac-cio. Intendevo dire, che farò di tutto per persuaderla: se poi, davvero, non volesse saperne, dopo avere esaurito tutti i mezzi, non abuserò certo della mia autorità. E che diavolo!… le voglio troppo bene a quell’angelo mio.
— Ma se lo dicevo che siete un padre adorabile: e queste vostre parole mi dànno il coraggio di….
— Forse Bice vi avrebbe fatto qualche confidenza?
— No: Sono io piuttosto che vorrei prendermi la confidenza di….
— E parlate, perdio!
Si fa presto, a dire: parlate! Proprio in quel momento, Giorgio si sentiva ingrossare la lingua, come avesse, Dio liberi, bevuto dell’acido fenico: gli si confondevano le idee, e non riesciva neppure a spiccicare una parola che avesse un po’ di senso comune. Oh quanto volentieri avrebbe chiamato Massimo, per dirgli:
— Parla un po’ te.
E quel birbante di Massimo, che stava in ascolto dietro la portiera, si godeva l’imbarazzo dell’amico, mentre l’ammiraglio non sapeva spiegarsi quella pausa troppo lunga, che aveva interrotto un così amichevole discorso.
Finalmente, Giorgio, a un punto verde e paonazzo, fece uno sforzo supremo.
— Le mie parole arrivano male a proposito, lo capisco, ma è necessario ch’io mi spieghi: si-gnor ammiraglio, io sono innamorato di vostra figlia.
E sospirò, come si fosse tolta dallo stomaco una macina da molino.
— Ah, questa non me l’aspettavo.
— Neanch’io: io non so come, in così poco tempo, questa passione si sia impadronita di tutto il mio essere, nel cervello, nel sangue, in tutte le fibre….
— Ohe, un caso grave?
— Gravissimo.
— Ne sono proprio desolato. Non è necessario che vi dica della simpatia grandissima che ho per voi; in altre circostanze, sarei stato felice di ammettervi nella mia famiglia….
— Sarò un genero…. sarò un figlio, ve lo giuro, dei più amorosi e devoti.
— Ve lo credo: ma come si fa? Al punto in cui sono le cose, è impossibile.
— Voi mi riducete alla disperazione!
— Accidenti, che fuoco! non vi sapevo infiammabile a tal punto.
— Se avete amato, ammiraglio, mi capirete.
— Ah sì! chi se ne ricorda più? storia del medio evo! A ogni modo, vi compatisco, e non sa-prei neppure che cosa dirvi per consolarvi. E d’altra parte, credete che mia figlia sia disposta a cor-rispondervi? Non ho notato in lei nessun indizio che riveli preoccupazione di cuore, e voi sapete che l’amore è come il mal di denti, non si può nascondere.
— Vostra figlia è un angelo e non avrei mai osato dirle una parola, ma l’adorazione con cui la circondavo era a lei molto gradita e non ne faceva mistero. Quando le stringevo la mano, sentivo di non esserle indifferente. I suoi occhi si fissavano certe volte ne’ miei con un’insistenza dolce che mi fa ancora rabbrividire.
— E se non fossero che illusioni vostre?
— Non credo: a ogni modo, siate umano, lasciate che io le parli, lasciate ch’ella decida della sua e della mia sorte.
— Perdonate, ma questo è impossibile: anzi, con mio dispiacere, poichè le cose sono a tal punto, e per quanto io vi conosca per quel gentiluomo che siete, sono costretto, perdonate, vi ripeto, a chiudervi l’uscio di casa mia, che vi avevo spalancato con tanta cordialità.
— È una vera crudeltà.
— Ne sono afflitto quanto voi, ma è necessario, la prudenza lo esige, anche per evitare di trovarci tutti in una posizione falsa. Magari, quando sarà fatto il matrimonio….
— Prego, non me ne parlate. Questo matrimonio non si farà!
— Oh oh!… questo è un po’ troppo, caro conte, il matrimonio si farà.
— Non si farà.
— E io vi dico che si farà, — replicò a voce alta l’ammiraglio, cominciando a scaldarsi, — oh, corpo d’una saetta! vorrei vedere anche questa.
— Può essere ch’io ve la faccia vedere. Dal momento che mi respingete e mi mettete agli e-stremi, sento d’avere esaurito tutti i riguardi dell’amicizia….
Massimo, nell’udire queste parole dal suo nascondiglio, si stropicciò le mani, dicendo entro di sè:
— Bene, bene! l’amore improvvisa degli eroi.
L’ammiraglio pareva interdetto, quasi non sapesse se ridere di tale provocazione o prenderla sul serio. Poi, scoppiò in un accesso d’ilarità e disse a Giorgio:
— La vostra audacia non mi dispiace. È una specie di duello che mi proponete, e sia!
— È una guerra leale, in cui farò di tutto per impedire il progettato matrimonio e indurre vo-stra figlia a schierarsi dalla mia parte.
— E io farò di tutto in senso contrario.
— Ma io, assistito dall’amore, sarò più forte di voi.
— Non mi conoscete abbastanza, figliuolo mio. Sono vecchio e grossolano, ma furbo e forte.
— Sarò più fino di voi.
— Benone: e io vi do carta bianca: fate quel che volete, e se riescirete a mettermi nel sacco, mi confesserò per vinto.
— E io abuserò della vittoria.
— Si sa: guai ai vinti! ma se il vinto foste voi?
— Non posso essere vinto, perchè, son deciso: o vincitore…. o morto!
— Peccato che non siate entrato nella marina! Siamo dunque intesi?
— La guerra è dichiarata fin d’ora.
— Guerra senza tregua!
— Guerra aperta e inesorabile.
— Ma badate a spicciarvi, perchè il capitano sta per arrivare, e dovrete allora combattere due eserciti.
— Il vostro alleato sarà la vostra debolezza.
— Convien conoscere il nemico, non già disprezzarlo, voi commettete un primo errore stra-tegico.
— Non importa: il mio piano è tutto di sorpresa.
— E il mio di non lasciarmi sorprendere.
Stretta calorosamente la mano al conte, l’ammiraglio si dispose alla partenza.
Giorgio lo accompagnò assai gentilmente per le scale, e giunti nell’atrio si scambiarono una suprema stretta di mano.
L’ammiraglio disse gaiamente:
— Caro nemico…. addio!
— Nemico carissimo…. a rivederci.
— Da lontano!
Dopo un ultimo cavalleresco saluto, Giorgio si voltò per tornare in camera, e si trovò la via sbarrata dal barone De Renzis, che gli disse:
— Povero amico! c’è stata dunque una sconfitta?
— Ma che! appena adesso comincia la battaglia.
— Se vuoi mobilitarmi, son tutto a tua disposizione.
— Non dubitare, profitterò. Adesso, salgo un momento in camera mia….
— Potresti dire all’osservatorio. Ora mi spiego quella finestra d’angolo, tu puoi sorvegliare il campo nemico.
— Dunque, tu avevi capito?…
— Io? ma la cosa, caro mio, è ormai di dominio pubblico. Tutta la colonia ha gli occhi su te. Pensa, amico mio, che, in una stazione di bagni, l’unica distrazione è quella di sorvegliare il pros-simo. Tu hai già un pubblico. Attento, a non farti fischiare.
— M’affido a te: sei troppo abile commediografo, per non evitarmi un simile guaio. A rive-derci più tardi, ti terrò informato di tutto. E mi raccomando, la discrezione!
— Diamine!
Giorgio non aveva fatto ancora il primo capo di scale, che il barone disse alle signore e agli amici:
— Vi terrò a giorno di tutto.
Massimo, sdraiato sopra un sofà, aspettava nel saloncino.
— Siamo alla guerra, Massimo mio! —esclamò Giorgio entrando, — ti dirò, adesso, quel che ha risposto l’ammiraglio.
— Risparmia questa fatica; ho inteso tutto.
— E come ti pare che me l’abbia cavata?
— Meglio di quel che mi aspettavo. Adesso, dunque, per la prima cosa, devi far conoscere alla signorina Bice, chiaramente, le tue intenzioni. Sarebbe impresa da sciocco, voler entrare in pa-radiso a dispetto dei santi.
— E come si fa?
— Troveremo: intanto, passiamo un po’ in rassegna l’esercito nemico, la guarnigione della cittadella. Prima di tutto, c’è l’istitutrice, miss Trollope.
— E quella è nostra.
— È mia, se permetti; o almeno così spero. Poi c’è la governante, Teresa Baliani, una specie di duegna spagnuola, matura, orgogliosa, vanitosa e interessata.
— Ha troppi difetti, per essere temibile. O col denaro o con altri mezzi….
— Non pretenderai mica che conquisti la signora Teresa? L’avanguardia è composta del portiere Esposito Gennaro….
— Briacone, sordo e imbecille.
— Poi viene la linea di sostegno: il giardiniere.
— Prospero…. Tacconi; no, un nome che finisce in oni, cervello sottile e spirito maligno, giocatore di lotto.
— Ogni uomo ha il manico per afferrarlo; il manico di questo Prospero è la cabala; passiamo alla difesa interna; c’è Mario, il servitore, ex-marinaio, uomo fedele a tutta prova.
— Quello è un cane.
— E infine Lisetta, la cameriera…
— E quella è una civetta.
— Guardata dal cane; sono stato bene informato da miss Annie.
— L’essenziale, dunque, sarebbe di sedurre la governante.
— Una cosa da niente! è la sola impresa che mi spaventa.
— Guarda, guarda! — esclamò Giorgio, che occhieggiava dalla finestra, verso la palazzina dell’ammiraglio, — giusto lei, donna Teresa, che, armata del suo ricamo, va nello stabilimento per aspettare la padroncina. Coraggio, Massimo, il momento è propizio.
— Quanto berrei più volentieri due litri d’olio di fegato di merluzzo!

Mussolini

Pensiero Fossile | Prima della Storia

1919 Mussolini ha 36 anni, e inizia la critica del socialismo. La storia deve ancora essere scritta. Il Fascismo non è ancora nato, Mussolini è un socialista che sta diventando popolare per le sue posizioni barricadere.
Come avviene oggi, Paolo Valera –  cronista socialista e collega – decide di scriverne una biografia che faccia conoscere meglio il personaggio…

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Io l’ho trovato a Trento, redattore capo del giornale Il Popolo di Battisti. Non era un grande giornale. Faceva più della cronaca che della politica. La politica, nei possedimenti austriaci, dava molte noie a coloro che ne scrivevano. Si veniva chiamati nei gabinetti delle teste poliziesche, redarguiti, censurati, espulsi. Benito Mussolini subì tutte queste cose. In quel tempo Mussolini soffriva. Aveva una forte flussione alle gengive. Malgrado i dolori egli migliorava il suo tedesco e metteva assieme un martire della religione, una specie di Savonarola che gli hanno pubblicato Podrecca e Galantara, della ditta dell’Asino. In Svizzera, senza smettere di fare il giornalista, frequentava come uditore le università. Guadagnava poco. Era obbligato qualche volta a impegnare il pastrano o il superfluo. Durante l’esodo dei novantottisti italiani contrasse amicizia con M. Serrati. Le università gli hanno dato modo di salire nella coltura tedesca e francese. Le soste erano i suoi supplizi. Doveva pur troppo ritornare a quel qualunque lavoro che gli
capitava, di facchino, di garzone, di imbianchino come il Costa. Il suo sovversivismo lo obbligò ad andarsene da due cantoni e quindi a ritornare nella propria Romagna.
In tanti trambusti difficilmente si resta giornalisti. Benito Mussolini a Forlì se ne è fatta una propria officina. Ha iniziato la Lotta di Classe. Ha radunato intorno a sé tutti i lettori proletari.
Giunto nel 1911 si è rovesciato sul ministero Giolitti. Non voleva guerre di conquiste. Incitava a voltare le spalle agli ordini che chiamavano la gioventù in caserma per andare in Libia a schiacciare l’indigeno.
Egli, come tanti altri che erano stati all’estero, aveva imparato che cosa volesse dire la colonizzazione. I boeri erano stati trattati bene dall’impero britannico! La colonizzazione fu tutto un volume di massacri.
Mussolini è stato messo in prigione. La così detta “passeggiata militare” era avvenuta. Le stragi sono state compiute. Le impiccagioni in Piazza del Pane sono state registrate, e i corrispondenti esteri sono scappati dalla Libia, dove si ammazzava in massa come a Sciara-Sciat. Io
tentai di penetrarvi da Siracusa, come penna dell’Avanti! Venni agguantato da un ordine di Giovanni Giolitti. Corsi a Roma e andai difilato a casa di Bissolati e lo incaricai di domandare spiegazioni.
Giolitti gli ha risposto che se mi avesse lasciato sbarcare, sarei stato schiaffeggiato da tutta l’ufficialità in piazza di Tripoli. Leonida Bissolati è stato come stordito. Gli ha risposto poco dopo: “Alla faccia di Valera avrebbe pensato lui stesso”.
I conquistatori non hanno senso di giustizia. Prevengono, impediscono, accusano o svillaneggiano. La solidarietà giornalistica d’allora è stata messa alla porta. I corrispondenti di guerra dell’Inghilterra e degli Stati Uniti sono andati a protestare dal governatore. I nostri rappresentanti della stampa, con alla testa Luigi Barzini, sono stati tutti per l’approvazione dei decimatori degli indigeni in blocco — compreso il deputato catanese De Felice.
Benito Mussolini è venuto via da Reggio Emilia direttore dell’Avanti! Aveva moglie e una figlia. I ghigliottinati del suo ’93 lo avevano circondato di fama truce. Lo si diceva violento. Lo si paragonava ai terroristi. Si vedeva in lui una rivoluzione ambulante. Dalla sua piattaforma scendevano razzi, tizzoni incandescenti. Incendiava dappertutto. I vecchi del partito vedevano in lui un sovvertitore maratista. In poco tempo avrebbe rovinato il partito. Una provocazione poliziesca avrebbe trascinati tutti in una colluttazione sanguinosa. Era un tipo che suscitava gli orrori degli enragés di una volta.
Benito Mussolini stava per mettere piede in uno degli ambienti più ingrati e più pitocchi della penisola. L’Avanti! era il peggiore padrone d’Italia. Pagava da cane. I suoi amministratori erano avari, taccagni, rapaci, venali, capaci di affamare tutti coloro che cadevano nella loro rete. Con la scusa che il socialismo era povero o in lotta con la borghesia e con i proprietari, davano salari e stipendi che facevano accapponare la pelle. Si può dire che la gente che dirigeva l’azienda socialista esigesse su per giù quasi tutto per niente. Manoscritti gratis, traduzioni per poco o niente.

Fine d’Anno

Reincontri | Paola Drigo

Una giovane vedova si trasferisce in campagna per cercare di amministrare direttamente i suoi possedimenti e porre rimedio al dissesto economico in cui si è venuta a trovare. Si dovrà confrontare con l’impenetrabilità del mondo contadino e l’invalicabilità della differenza sociale.

Un romanzo lucido, completamente privo di luoghi comuni. Un sorprendente verismo al femminile ambientato in veneto nelle campagne dell’alto Brenta.

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In berretto e mantello, con una valigetta in mano, Alberta si affacciò all’uscio della mia stan-za da letto e disse: – Vuoi che resti? Se non ti senti bene non parto.
Notai il suo seno aggressivo che l’ampio scialle di pelliccia non riusciva ad attenuare, il seno della donna matura che esiste senza un perché, senza una giustificazione; e nel viso grasso e olivastro gli occhi vivacissimi rimasti miracolosamente giovani, ridenti e un po’ ironici, occhi di diciott’anni, dei tempi del Sacro Cuore.
– No assolutamente, – risposi – ti sei sacrificata anche troppo. La mia indisposizione è cosa da nulla. Parti, parti senza pensiero.
Ci abbracciammo. Sulla soglia ella si voltò, si soffermò ancora un attimo a guardarmi agi-tando la mano piccola guantata di grigio.
– Del resto, – disse, – il tuo aspetto mi rassicura. E… coraggio!
Udii i tacchi alti scandire il ritmo del suo passo attraverso la sala, il rumore secco del richiu-dersi della porta sul giardino, il pulsare della macchina, lo scorrere tacito delle ruote sulla ghiaia; ai cancelli, il clacksong ripetere tre volte il suo rauco grido.
Poi la mia stanza fu sommersa nuovamente nel silenzio.

Eravamo alla fine di dicembre, un dicembre freddo, ventoso; i campi intorno lividi; in mon-tagna, la neve fino a mezza costa.
Per semplificare riscaldamento e servizio, avevo chiuso quell’anno completamente il piano nobile della villa e trasportato i miei appartamenti notturni al pianterreno, in una stanzetta di pochi metri quadrati dove un tempo si mettevano al riparo le seggiole da giardino, una stanzetta tutta porte e finestre che pareva un’uccelliera.
Aveva essa un grazioso soffitto a stucchi, ed era davvero un alloggio originale.
Un semplice cancelletto in ferro e vetro la separava dalla serra, attraverso il quale, dal mio letto, potevo quasi toccare le larghe foglie puntute dei camerops, e i gigli rossi che protendevano verso il sole le teste fiammeggianti; l’altra parete era quasi tutta presa da una finestra di forma biz-zarra, più larga che alta, di dove vedevo le due grandi magnolie solitarie sul prato; nella terza parete, un’altra finestra, differente dalla prima, scavata a imbuto nello spessore del muro come quelle dei castelli, si apriva verso le montagne: azzurre, verdi, nere, nere e bianche, secondo la luce e la sta-gione.
E tutto questo era molto bello, fuor del comune, ed anche grandioso, e mi dava talvolta la curiosa impressione di dormire all’aperto.
Ma naturalmente, sia per i tanti fori nelle pareti, sia perché il calore non veniva alla mia stanzetta che dalla stufa del salotto accanto, non si poteva dire che vi facesse un tepore proprio pri-maverile, e di mobili, oltre al letto e ad una poltroncina, ci stava poco di più.
Io avevo tappezzato quel che c’era di parete con una bella vecchia stoffa di colore smorto, e sopra il mio letto avevo messo quel disegno di Dürer che raffigura una testa di donna con un’espres-sione così triste, così triste, che, guardandola, mi pareva di toccare il mio cuore.
– Che grazioso nido! – dicevano le amiche se nell’attraversare il salotto gettavan l’occhio verso l’improvvisato accampamento.
E qualcuno che non era stato mai qui, si era felicitato della mia decisione di passar l’inverno in campagna: – «Come l’invidio di poter godersi tutto il sole, in una bella villa antica, fra grandi al-beri e vecchie statue» ecc. ecc.
Altri, di tendenze pedagogiche e moraleggianti, aveva esaltato la gioia di vivere «accanto» alla natura; «lungi» dagli arrivismi e dalle «competizioni» che ammorbano l’atmosfera cittadina ecc. ecc., e mi aveva raccomandato di profittare del «divino silenzio» per dedicarmi «all’arte».
I parenti poi, dopo avermi detto in mille occasioni che, loro, in questa solitudine, non ci sa-rebbero stati «neppure dipinti», a fatto compiuto, senza approfondirne i motivi, si erano trovati d’accordo nel sentenziare che la pace campestre e l’aria montanina… avrebbero indubbiamente gio-vato alla mia salute.
In realtà, la pace era relativa, e all’arte e alla salute c’era ben poco tempo e voglia di pensare: io sapevo bene di che si trattava, e sola io, avrei potuto parlare con cognizione di causa di ciò che mi aspettava quell’inverno in campagna.
Sì, stavo nella bella villa antica cogli stucchi alle pareti e alla torre l’orologio del Terracina, e, quando c’era, mi godevo tutto il sole, e potevo passeggiare sotto i grandi alberi come Giuseppina alla Malmaison: questa era una delle facce del quadro; l’altra, spoglia di abbellimenti retorici, era che dovevo stare in campagna quell’inverno, e forse altri inverni ancora, tutt’altro che per un elegante capriccio o per dedicarmi alla vita contemplativa, bensì per prendere in mano personalmente ed e-nergicamente l’amministrazione dissestata.
Avevamo avuto per lunghi anni piena fiducia in un fattore che pareva l’onestà in persona: quest’uomo era morto all’improvviso, stramazzato per sincope in mezzo alla strada, ed ecco alla sua morte erano saltati fuori infiniti malanni, imbrogli, disordini, guai, che mettevano in pericolo il mo-desto patrimonio che provvedeva alla nostra esistenza.
Bisognava correre ai ripari al più presto: innanzi tutto capire, poi, scernere il guasto dal sano, sistemare, semplificare, salvare.
Ed a ciò mi accingevo io, sola, colla mia poca esperienza, colla mia poca salute; questo era il panorama da contemplare: mucchi di conti, registri coll’incomprensibile Dare e Avere, Derrate, Mezzadrie, Stalle, Concimi, Cantine; questo, era il divino silenzio: colloqui interminabili con gente di campagna organicamente reticente e insincera; ore di chiacchiere vacue per cavar fuori una verità piccina piccina e approssimativa; e per di più la sensazione disgustosa della vigliaccheria umana, ché, adesso che il fattore era morto e non ne avevano più paura, i coloni si scagliavano a denunciarlo, ad accusarlo, anche degli imbrogli di cui erano personalmente responsabili.
– Ordine del poro Sior Checo. El poro Sior Checo ga volesto cussì. Ga fato lu.
Ah, la bonaria, la pura, idilliaca gente dei campi!… Da lontano, quando passavo otto mesi dell’anno in città, quando insomma i contadini li vedevo, si può dire, a volo d’uccello, a questa reto-rica avevo creduto anch’io; adesso, avrei potuto giurare che interessanti dal punto di vista umano ed anche artistico lo erano certo, ma bonari e idilliaci assolutamente no, e a starci insieme, e ad aver bisogno di loro per chiarire rapidamente e onestamente una situazione, c’era da rimetterci la vita.

La villa, quasi un castellotto, sorgeva in una delle più solinghe valli del Canal di Brenta, colle spalle addossate alla montagna. Larghe praterie, limitate da una fonda e ondosa cintura di bosco, la isolavano dal mondo.
La cittadina più prossima distava da noi parecchi chilometri: paesi o villaggi vicini non ce n’era; c’erano delle povere case sparse, disseminate in mezzo ai campi o lungo il torrente, al com-plesso delle quali era stato dato un nome. Vi abitavano in antico, favoriti dalla prossimità del confi-ne, i più arditi contrabbandieri, tramutati, nell’epoca di cui parlo, in tranquilli lavoratori, pur conser-vando nell’indole e nei lineamenti qualchecosa di risentito, che si notava.
La villa era circondata da una tenuta piuttosto vasta denominata La Marzòla, appartenente alla nostra famiglia da tempo immemorabile, dove vivevano, tra grosse e piccole, dieci famiglie di coloni: una specie di piccolo feudo costituito da terreni che dalla collina digradavano al piano, e do-ve era in atto la cultura più varia.
C’erano vigneti, frutteti, boschi di castagni e di larici, prati irrigui, campi di grano e di fru-mento; e infine, come un po’ dappertutto lungo le rive del Brenta, vaste piantagioni di tabacco.
Le fattorie erano quasi tutte nuove o di recente restaurate; le stalle, le cantine, le concimaie, spaziose e razionali; pozzi artesiani dappertutto: mio marito, poveretto, negli ultimi anni di sua vita aveva profuso molto denaro nella sistemazione della Marzòla.
I nostri cinque fittavoli più importanti rispondevano ai nomi di Battagin, Parolin, Lazzarin, Merlo, Capuzzo. Si chiamavano i minori Titotto, Padovan, Gatto, Pigozzo. E, come dai nomi si comprende, eran tutti del sito, e da lustri e lustri e forse da centinaia d’anni, alle dipendenze della nostra famiglia; taluni erano anche fra loro parenti.
Ma, ciò malgrado, mi ero presto avvista che non vivevano affatto in buon accordo, anzi si invidiavano, si spiavano, e sordamente si odiavano.

Maria Zef

Reincontri | Paola Drigo
La condizione femmile e la campagna friulana sono al centro anche di questo romanzo della Drigo.
Maria Zef  è una piccola ambulante che l’autrice segue dai dodici anni ai venti facendo un affresco della realtà contadina di inzio secolo.
Narrando la storia di Maria, la Drigo rappresenta, senza celebrarla, la difficoltà di essere donne sole in un mondo maschile, proponendo però un modello di donna mai passivo e rassegnato verso quanto la circonda.

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Erano due donne un carretto ed un cane. Andavano lungo l’argine del fiume, dopo il tramonto, verso una grossa borgata di cui si vedeva appena brillar qualche lume sull’altra sponda.
Il carretto a due ruote, carico di mèstoli, scodelle, càndole e candolini, e di altri oggetti in legno, era trascinato da una delle donne che, attaccata alle stanghe per mezzo d’una cinghia che le passava sotto le ascelle, tirava innanzi animosamente tra le buche e il fango della strada.
Veramente, benchè alta e complessa con larghe spalle di montanara, era ella piuttosto una bambina che una donna, di tredici o quattordici anni appena, con un visotto tondo ed ingenuo, e due begli occhi azzurri dall’espressione infantile.
Pur seguitando a fare bravamente il suo ufficio di cavallo, si voltava di tratto in tratto con visibile ansia a guardare la madre che, fiancheggiando il carretto e posando la mano sulla sponda di esso, faceva l’atto di sospingerlo, ma in realtà vi si appoggiava sopra stancamente, trascinando a fatica i grossi piedi calzati delle scarputis.
Osservando meglio, si vedeva che un terzo personaggio faceva parte della comitiva: una bimba di cinque o sei anni, profondamente addormentata fra i mèstoli e i candolini, ed avvolta in uno scialle sdruscito da cui non sbucavano fuori che un ciuffetto di capelli rossi e la sommità d’una guancia paffuta.
Il cane, un barboncino color del fango, trotterellando chiudeva il piccolo convoglio.

Camminavano dall’alba, e avevano camminato anche il giorno innanzi e quell’altro e quell’altro ancòra, da due settimane, attraversando gran parte della regione che dal Friuli digrada al mare.
Si soffermavano nei paesotti, nelle fiere, nei cortili delle case coloniche, a vendere la loro mercanzia. Mangiavano, si può dire, camminando, e dormivano dove capitava: nei portici delle fattorie, nei fienili, nelle stalle.
Approssimandosi all’abitato la fanciulla si faceva precedere da un piccolo grido:
— Càndole, candolini, sculièri, menèstri, donne!.
Allora le contadine del piano, floride e grasse, uscivano dalle case coi bimbi piccoli attaccati alle gonne, si assiepavano curiose intorno al carretto, finivano per comperare per pochi soldi chi un oggetto chi un altro, dopo lunghe discussioni.

La madre e le figliole erano conosciute ormai in tutti i paesi lungo le rive del Livenza e del Piave, chè, scendendo ogni anno dalla Carnia al principiar dell’autunno, passavano sempre press’a poco per gli stessi luoghi, e non tornavano in montagna se non dopo aver vuotato il carretto, e raggranellato un piccolo peculio.
Al loro passare, la buona gente del contado le chiamava per nome, e le salutava allegramente:
— Catine! Mariùte! Rosùte!
I fanciulli le rincorrevano ridendo e gridando:
— Uh, Mariùte! Uh, Rosùte! Uh, Catine!.
A dire vero, Catine, la madre, non avrebbe ispirato nè simpatia nè allegria, chè era una donna dall’aspetto squallido, taciturna, sempre piena di freddo, con un fazzoletto scuro legato sotto il mento come una vecchia.
Vecchia forse non era, ma così logora e malandata da sembrare decrepita. Tossiva continuamente, e camminava trascinando i piedi, ma pareva facesse fatica anche a rispondere a chi la salutava, e usciva dal suo torpore soltanto per discutere accanitamente sul prezzo della mercanzia. Allora, due macchie rosse accendevano alle tempie il suo terreo pallore, la voce le tremava, e le tremava la bocca sulle gengive sdentate. Mariutine, la figlia maggiore, la guardava con ansiosa timidezza. Le contadine borbottavano:
— Che grinta!
Col suo modo di fare, Catine avrebbe indubbiamente disgustato e allontanato la clientela, se non avesse avuto al suo fianco Mariutine. Ma Mariutine, nei momenti difficili sapeva intervenire con una parola conciliante o scherzosa che neutralizzava, per così dire, la durezza eccitata della madre; eppoi aveva un’arte, quella bambina, per attirare a comprare anche chi non ne aveva voglia!
Prendeva in mano gli oggetti con delicatezza, maneggiandoli colla punta delle dita, come fossero d’oro; li voltava e li girava da tutte le parti, mettendone in mostra i pregi e nascondendone i difetti; guardava in faccia gli offerenti, con quei suoi occhi azzurri che, ridendo, supplicavano.
— Ah, le bambine non sembrano neppur figlie di quel sacranon! — dicevano le donne — Mariutine l’è ‘na tosèta d’oro, la fa fin da caval; Rosùte, la par de butiro.
Infatti, le bambine erano belle, robuste, colorite; le bambine piacevano a tutti: Mariutine furba svelta ed allegra, impavida contro il freddo, la fame, il sonno e la fatica; Rosùte, così buffa, col suo ciuffetto ritto di capelli rossi, insaccata in una vecchia giacca da uomo, grassa e pacifica come si nutrisse di tordi e beccafichi, anzichè di pan duro. Che fosse zoppina, non ci si accorgeva neppure, e neppure veramente lo era: si era ferita a un piede andando scalza, e quando scendeva dal carretto teneva la sua zampetta per aria, come le cicogne.
— Càndole, candolini, sculièri, menèstri, donne!
Talvolta, negli anni buoni, capitando esse nei pressi delle fattorie ricche al tempo della ven-demmia, quando la tavola era preparata non soltanto per i padroni, ma per le «opere», e sul fuoco fumava un’immensa pentola di zuppa, la massaia di buon cuore aggiungeva una ciotola ed un pane anche per loro, insieme a quelle dei vendemmiatori.
Per Mariutine, erano giorni di gran festa. Il desco era imbandito sotto il portico, colla tovaglia grezza e le ciotole fiorate, e lungh’esso non erano sedie, ma strette panche di legno. In fondo al portico si spalancava la cantina, lunga e misteriosa come un antro, colle sue travi nere, coi suoi tini immensi, da cui emergevano uomini scamiciati. Una fiola ad olio appesa a un gancio, da cui l’aria faceva ondeggiare la fiamma, l’illuminava di una luce rossastra, interrotta da larghe zone d’ombra.
Quando il cielo cominciava ad impallidire, rapide e scarmigliate rientravano le vendemmiatrici cogli ultimi cesti d’uva; come grandi diavoli balzavan fuori dai tini i pigiatori correndo alla fontana a lavarsi le gambe pelose e rosse di mosto; la massaia scodellava con aria d’importanza la zuppa nelle ciotole. Allora il gatto sbucava guardingo di sotto all’aratro; il cane si accovacciava scodinzolando accanto al posto del padrone di casa. Dopo un attimo di tramestio, di urti, di risate, si faceva all’improvviso un gran silenzio: tutti mangiavano avidi, curvi sul piatto, con occhi sfuggenti. Ma dopo mangiato, qualcuno diceva:
— Cantaci dunque qualche cosa, Mariutine!
E Mariutine, arrossendo un poco, ma senza farsi pregare, scavalcata svelta la panca, correva fuori in mezzo all’aia:

Buine sere, fantâcinis
Us domandi libertât
Di podens chantà une dance
Cence jèsse disturbât.

S’o sàves une rizzete
La vorès propri chantà
Ma non sai dabon nissune
Sol che dî: lalìn-lalà.

— Lalìn-Lalà! Lalìn-Lalà! — ripetevano in coro i vendemmiatori, battendo i piedi e le mani. Ed ella:

A chantà no è fadie
Se no si è plui che malâz,
A chantà si fas legrie
A chei zovins disperaz.

A chantà no è fadie
Se no si è plui che chamáz,
No chantin per fà legrie
A chei pûers impassionaz.

La figura della fanciulla, sola in mezzo alla grande aia, nella grossa sottanella, colle spalle avvolte da un logoro scialletto incrociato sul petto, si delineava goffa e imprecisa, ma la testina, fasciata dalle trecce strette di un biondo acceso, risaltava piccola e luminosa sotto il cielo pallido dove incominciavano ad apparire le prime stelle.
— Un’altra, Mariutine, un’altra: e più longa! — applaudivano gli ascoltatori.
Ed ella pronta, ridendo cogli occhi furbi, e sollevando colla punta delle dita le cocche del grembiale con un piccolo inchino:

Cheste sere plui no chanti,
Chansonetis plui no sai,
Tornarai doman di sere
Che di plui in savarai.

Nô us din la buine sere
Nô us din la buine gnòt
Tornarai un’altre sere,
Chantarin plui ben di usgnòt.

A quelle sortite, i bambini e i ragazzi, scavezzotti sui quindici anni, accorrevano intorno a Mariutine facendo un chiasso del diavolo.
— Usgnòt, Usgnòt! Che cosa vuol dire usgnòt?
Fra i vendemmiatori, accoccolati sui talloni intorno all’aia, qualche voce rispondeva:
— L’è un osel cantarin! L’è el rossignòl!
— E allora canta, canta ancora, usgnòt!… Usgnòt!…
«Usgnòt» non significava affatto usignolo, che in friulano si dice semplicemente «russignùl», ma Mariùte, assordata dalle grida allegre, circondata, rincorsa per l’aia, non aveva tempo di dar spiegazioni.
Oh, a lei sarebbe piaciuto immensamente trattenersi ancora a cantare, a ridere, fra la marmaglia dei ragazzi della sua età, ma incontrava gli occhi di sua madre, tristi, e quel suo viso stanco, vecchio, dalle labbra bianche: Catine non diceva nulla, ma Mariùte non aveva coraggio di riprendere il canto.

Il Milione

Semper |

Anno Domini 1298. Marco Polo è rinchiuso in una prigione genovese assieme a Rustichello da Pisa, un letterato che ha girato Francia e Inghiterra, e ha portato per primo in italia il ciclo arturiano. E’ così che Marco decide di dettare la memoria di suoi viaggi, intrapresi tra il 1275 e il 1295.
Nasce Il Milione, la storia di un incredibile viaggio di andata e di riorno ciascuno durato oltre tre anni e della permanenza di 17 anni in Catai alla corte del Gran Khan.

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Del re di Giorgens.

In Giorgens à uno re lo quale si chiama sempre David Melic, ciò è a dire in francesco David re; e è soposto al Tartaro.
E anticamente a tutti li re, che nascono in quella provincia, nasce uno segno d’aquila sotto la spalla diritta. Egli sono bella gente, prodi di battaglie e buoni arcieri. Egli sono cristiani e tengono legge di greci; li cavalli ànno piccoli a guisa di chereci.
E questa è la provincia che Alessandro non potte passare, perché dall’uno lato è ‘l mare e dall’atro le montagne: da l’altro lato è la via sí stretta che non si può cavalcare; e dura questa istretta via piú di 4 leghe, sicché pochi uomini terebbero lo passo a tutto il mondo: perciò non vi passò Alesandro.
E quivi fece fare Alesandro una torre con grande fortezza, perché coloro non potessero pasare per venire sopra lui; e chiamasi la Porta del Ferro.
E questo è lo luogo che dice lo libro d’Alesandro, che dice che rinchiuse li Tartari dentro da le montagne; ma egli non furono Tartari, ma furo una gente ch’ànno nome Cumani e altri generazioni asai, ché Tartari non erano a quello tempo.
Egli ànno cittadi e castella assai, e ànno seta assai e fanno drappi di seta e d’oro assai, li piú belli del mondo. Egli ànno astori gli migliori del mondo, e ànno abondanza d’ogni cosa da vivere. La provincia è tutta piena di grande montagne, sí vi dico che li Tartari non pòttero avere interamente la segnoria ancora di tutta.
E quivi si è lo monistero di santo Leonardo, ove è tale meraviglia, che d’una montagna viene uno lago dinanzi a questo munistero e no mena niuno pesce di niuno tempo, se no di quaresima; e comincia lo primo die di quaresima e dura infino a sabato santo, e e’ viene in grande abondanza. Dal dí inanzi uno no vi si ne truova, per maraviglia, infino a l’altra quaresima.
E sappiate che ‘l mare ch’i’ v’ò contato si chiama lo mare di Geluchelan, e gira 700 miglia e è di lungi da ogni mare bene 12 giornate; e venev’entro molti grandi fiumi. E nuovamente mercatanti di Genova navica per quello mare. Di là viene la seta ch’è chiama ghele.

Il Decamerone

Semper |

Dieci giovani, dieci giornate, cento novelle.
E’ il 1349, la peste è appena passata da Firenze quando Boccaccio inizia a scrivere il Decameron. Probabilmente lo scopo era mostrare come lo spirito non si facesse abbattere dalle traversie, o forse divertire un po’ in un momento che doveva apparire ben nero. Il risultato più evidente fu una raccolta di storie così divertenti e scanzonate da attraversare l’europa per quasi sette secoli,  influendo sulla storia e sulla cultura dell’intero occidente.

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Novella Quinta

La marchesana di Monferrato, con un convito di galline e con alquante leggiadre parolette, reprime il folle amore del re di Francia.

La novella da Dioneo raccontata, prima con un poco di vergogna punse i cuori delle donne ascoltanti e con onesto rossore né loro visi apparito ne diedon segno; e poi quella, l’una l’altra guardando, appena del ridere potendosi astenere, sogghignando ascoltarono. Ma venuta di questa la fine, poiché lui con alquante dolci parole ebber morso, volendo mostrare che simili novelle non fosser tra donne da raccontare, la reina verso la Fiammetta, che appresso di lui sopra l’erba sedeva, rivolta, che essa l’ordine seguitasse le comandò. La quale vezzosamente e con lieto viso a lei riguardando incominciò.

Sì perché mi piace noi essere entrati a dimostrare con le novelle quanta sia la forza delle belle e pronte risposte, e sì ancora perché quanto negli uomini è gran senno il cercar d’amar sempre donna di più alto legnaggio ch’egli non è, così nelle donne è grandissimo avvedimento il sapersi guardare dal prendersi dello amore di maggiore uomo ch’ella non è, m’è caduto nell’animo, donne mie belle, di mostrarvi, nella novella che a me tocca di dire, come e con opere e con parole una gentil donna se’ da questo guardasse e altrui ne rimovesse.

Era il marchese di Monferrato, uomo d’alto valore, gonfaloniere della Chiesa, oltre mar passato in un general passaggio da’ cristiani fatto con armata mano. E del suo valore ragionandosi nella corte del re Filippo il Bornio, il quale a quel medesimo passaggio andar di Francia s’apparecchiava, fu per un cavalier detto non essere sotto le stelle una simile coppia a quella del marchese e della sua donna; però che, quanto tra’ cavalieri era d’ogni virtù il marchese famoso, tanto la donna tra tutte l’altre donne del mondo era bellissima e valorosa.

Le quali parole per sì fatta maniera nell’animo del re di Francia entrarono, che, senza mai averla veduta, di subito ferventemente la cominciò ad amare e propose di non volere, al passaggio al quale andava, in mare entrare altrove che a Genova; acciò che quivi, per terra andando, onesta cagione avesse di dovere andare la marchesana a vedere, avvisandosi che, non essendovi il marchese, gli potesse venir fatto di mettere ad effetto il suo disio.

E secondo il pensier fatto mandò ad esecuzione; per ciò che, mandato avanti ogni uomo, esso con poca compagnia e di gentili uomini entrò in cammino; e avvicinandosi alle terre del marchese, un dì davanti mandò a dire alla donna che la seguente mattina l’attendesse a desinare. La donna, savia e avveduta, lietamente rispose che questa l’era somma grazia sopra ogni altra e che egli fosse il ben venuto. E appresso entrò in pensiero che questo volesse dire, che un così fatto re, non essendovi il marito di lei, la venisse a visitare; né la ‘ngannò in questo l’avviso, cioè che la fama della sua bellezza il vi traesse. Nondimeno, come valorosa donna dispostasi ad onorarlo, fattisi chiamare di que’ buoni uomini che rimasi v’erano, ad ogni cosa opportuna con loro consiglio fece ordine dare, ma il convito e le vivande ella sola volle ordinare. E fatte senza indugio quante galline nella contrada erano ragunare, di quelle sole varie vivande divisò a’ suoi cuochi per lo convito reale.

Venne adunque il re il giorno detto, e con gran festa e onore dalla donna fu ricevuto. Il quale, oltre a quello che compreso aveva per le parole del cavaliere, riguardandola, gli parve bella e valorosa e costumata, e sommamente se ne maravigliò e commendolla forte, tanto nel suo disio più accendendosi, quanto da più trovava esser la donna che la sua passata stima di lei. E dopo alcun riposo preso in camere ornatissime di ciò che a quelle, per dovere un così fatto re ricevere, s’appartiene, venuta l’ora del desinare, il re e la marchesana ad una tavola sedettero, e gli altri secondo la lor qualità ad altre mense furono onorati.

Quivi essendo il re successivamente di molti messi servito e di vini ottimi e preziosi, e oltre a ciò con diletto talvolta la marchesana bellissima riguardando, sommo piacere avea. Ma pure, venendo l’un messo appresso l’altro, cominciò il re alquanto a maravigliarsi, conoscendo che quivi, quantunque le vivande diverse fossero, non per tanto di niuna cosa essere altro che di galline. E come che il re conoscesse il luogo, là dove era, dovere esser tale che copiosamente di diverse salvaggine avervi dovesse, e l’avere davanti significata la sua venuta alla donna spazio l’avesse dato di poter far cacciare; non pertanto, quantunque molto di ciò si maravigliasse, in altro non volle prender cagione di doverla mettere in parole, se non delle sue galline, e con lieto viso rivoltosi verso lei disse:

– Dama, nascono in questo paese solamente galline senza gallo alcuno

La marchesana, che ottimamente la dimanda intese, parendole che secondo il suo disidero Domenedio l’avesse tempo mandato opportuno a poter la sua intenzion dimostrare, al re domandante, baldanzosamente verso lui rivolta, rispose:

– Monsignor no, ma le femine, quantunque in vestimenti e in onori alquanto dall’altre variino, tutte perciò son fatte qui come altrove.

Il re, udite queste parole, raccolse bene la cagione del convito delle galline e la virtù nascosa nelle parole; e accorsesi che invano con così fatta donna parole si gitterebbono, e che forza non v’avea luogo; per che così come disavvedutamente acceso s’era di lei, così saviamente era da spegnere per onor di lui il mal concetto fuoco. E senza più motteggiarla, temendo delle sue risposte, fuori d’ogni speranza desinò; e, finito il desinare, acciò che col presto partirsi ricoprisse la sua disonesta venuta, ringraziatala dell’onor ricevuto da lei, accomandandolo ella a Dio, a Genova se n’andò.